Burzio, allievo di Machiavelli

Burzio, allievo di Machiavelli Burzio, allievo di Machiavelli Durante i mesi infuocati del referendum istituzionale, Corriere c Stampa, i due grandi rivali dell'epoca di Albertini c di Frassati, si scambiarono in qualche misura le parti. L'organo erede del liberalismo accigliato e conventuale di Luigi Albertini, con una punta di destra storica vissuta in chiave di intransigenza moderata e monarchica, si schierò con estremo fervore per la Repubblica; il giornale torinese, interprete del filone giolittiano e progressista della nostra storia, si rispecchiò in una linea di grande cautela e prudenza, appena corretta dalla scelta dichiaratamente e lealmente monarchica del direttore del tempo. Certo l'«animus» dei due direttori non mancò di esercitare un peso decisivo in quella singolare e inedita contrapposizione. Da una parte Mario Borsa, un vecchio liberale con una punta di radicalismo cattaneiano, figlio di quella tradizione autonomistica lombarda in cui larga parte aveva avuto la scuola repubblicana, risentita senza manicheismi ma con assoluto rigore morale e con una punta di distaccata solitudine; dall'altra Filippo Burzio, un liberale che si era formato alla scuola di Pareto e di Mosca, che aveva attribuito un valore determinante alle élites politiche nella storia, che aveva integrato un suo connaturale, piemontesissimo, schietto «giolittismo» con un'idea della monarchia come ragione di forza della tradizione risorgimentale, come punto d'incontro di un complesso spesso lacerante e divaricato di filoni nazionali. Due galantuomini e due antifascisti, che si muovevano nell'orbita della grande tradizione liberale, ma in una chiave che con Borsa sfiorava il travaglio del partito d'azione (non a caso mai tanti azionisti scrissero sul Corriere come nella sua breve stagione) e con Burzio si ricollegava a un preciso filone quiritario e prefascista, molto più liberale che democratico, estraneo a ogni suggestione o tentazione di «terza forza». Oggi che cadono trent'anni dalla scomparsa di Burzio, il primo direttore de La Stampa dopo la liberazione, la mente torna con una vena di malinconia su quell'esempio di eleganza e di dirittura morale che il direttoreprofessore torinese seppe scoprire in mesi di terribili contraddizioni e di tensioni profonde. Ai suoi articoli in favore della monarchia (una monarchia immaginaria, di stampo risorgimentale, quale lo strappo del 28 ottobre aveva distrutto per sempre) Burzio alternava con lo stesso ritmo e con la stessa cadenza interventi in favore della Repubblica, fedele a una regola di giornalismo britannico che aveva respirato nel vivo di una cultura europea: ne ricordiamo due, particolarmente impegnati e vigorosi, di Luigi Salvatorelli (l'autore delle pagine di fuoco su «Casa Savoia nella storia d'Italia», cosi dure da generare perfino le critiche di un Falco) e di Umberto Calosso, l'antico gobettiano che condivideva con lo sfortunato direttore della Rivoluzione liberale il culto di Vittorio Alfieri. Direttore civile, «liberale» nel senso originario del termine, rispettoso di tutte le fedi. Arrivato al giornalismo militante, Filippo Burzio, da una singolare e per certi aspetti irripetibile esperienza umana. Professore universitario (e La Stampa annovera altri precedenti illustri di direttori-universitari: basti pensare a Salvatorelli, che per il quotidiano torinese compromise la cattedra, che nessuno gli restituì mai) ma di una disciplina lontanissima da quella del commentatore politico. Ordinario di meccanica razionale presso l'Accademia militare di Torino dal 1921 al 1940 (arrivato in cattedra appena trentenne); studioso appassionato e competente di balistica; autore di numerosi e approfonditi saggi sul «regime dei proietti», una area del tutto diversa dai regimi politici. Eppure, nello stesso tempo, studioso dell'organizzazione sociale, «sociologo» nella misura in cui il termine, oggi abusato e talvolta ridicolizzato, si adatta a chi aveva lungamente sostato sui trattati paretiani e sulle pagine di Gaetano Mosca e ne aveva tratto una visione del liberalismo aristocratica, elitaria, con una punta di antidemagogismo ostentata, con un certo disprezzo dei valori di democratismo e di umanitarismo, lo stesso che dominerà le pagine di Croce fino al 1918. Non a caso a Benedetto Croce, «devotamente», è dedicato il primo significativo libro di questo studioso indipendente ed extravagante, sempre sorretto da un'assoluta libertà intellettuale, Politica demiurgica dei \92V. un libro che si apre con un capitolo su «L'attualità di Treitschke» e in cui scorre, prepotente, quasi ad ogni pagina, l'influenza di Max Weber. Prima anticipazione di quella singolare teoria del «demiurgo» che Burzio svilupperà e perfezionerà negli anni successivi, particolar¬ mente in quel volume sul Demiurgo e la crisi occidentale che colpi e sconcertò, a metà degli Anni Trenta, l'adolescenza nostra e di molti della nostra generazione: con la visione, affascinante e consolatoria, del «demiurgo» come elemento moderatore dei contrasti che possono insorgere fra le diverse civiltà europee, grazie ai connotati distintivi dell'«universalità», del «distacco» e del «magico». Elementi, spesso contrastanti e talvolta ermetici, che la fantasia razionale e rigorosa di Burzio mescolava insieme e quasi contrappuntava in una sintesi in cui le lince del professore di balistica si univano con la lucidità dell'uomo sempre fedele alle regole dello «spirito critico» e dello «spirito scientifico», pure nell'incalzarc e nel mareggiare degli irrazionalismi. E' difficile dire quanto resti, oggi, del sistema filosofico di Burzio, ed è perfino da domandarsi se Burzio, da quel gran signore e dissipatore della cultura quale fu, abbia voluto veramente costruire un sistema chiuso in una corazza di principi o di confini. La fedeltà della parola «demiurgo» o «demiurgia», che lo caratterizzò fino alla fine della sua non lunga giornata, non deve trarre in inganno. Nella visione, eclettica e sperimentale, di questo piemontese colto e riflessivo Giolitti, il realistico e pragmatico Giolitti, costituiva un esempio tipico di «demiurgo», al di fuori di ogni posa profetica o salvatrice. Non a caso il capitolo forse più bello, certo più sentito di quel primo libro del 1923 e dedicato a Giolitti, vissuto in una dimensione piemontese di «servitore dello Stato», ma con l'intuizione dell'avvenire e del ruolo delle classi lavoratrici, indispensabile ad un «conservatore intelligente», che guarda al «vantaggio dello Stato». Solo attraverso l'esperienza della guerra e del dopoguerra, arricchita dalla battaglia antifascista, la visione di un liberalismo dei notabili propria di Burzio si arricchirà di un «pathos» democratico, destinato a compenetrare le estreme pagine di Essenza ed attualità del liberalismo. E' il momento della netta separazione da Mosca e da Pareto, come l'ha colta, in una notazione lucida, Norberto Bobbio. E' il momento in cui la «scienza politica», un'espressione in cui Burzio aveva creduto in tempo di eccessivi e talora infondati scetticismi, conforta l'ideologia liberal-democratica piuttosto che le altre. E' il momento in cui la scienza si identifica «tout court» con la libertà. La direzione de La Stampa coinciderà con quegli anni di grazia del tormentato pensatore piemontese, che una polemica dura aveva diviso da Gobetti nel 1924 (ed era una polemica in cui aveva ragione Gobetti). Separate le angolosità e le astrazioni di una formazione composita e talvolta contraddittoria, il liberalismo di Burzio, affondato nelle salde radici del Piemonte alficriano, si dispiegava intero in una visione dei valori di umanità e di tolleranza, sempre inseparabili dalla libertà. E quasi mai antitetici all'interesse dello Stato e della collettività: quando tale interesse sia sentito con la coscienza intera che aveva caratterizzato uno dei veri e mai smentiti maestri di Burzio, Niccolò Machiavelli. Giovanni Spadolini

Luoghi citati: Italia, Mosca, Pareto, Piemonte, Torino