Questa guerra di Guido Ceronetti

Questa guerra Questa guerra Stanca i brividi, questa guerra che è diventata impossibile e resta, a un tempo, incombente e inattuale. Vedo e temo i suoi surrogati: saccheggio tellurico totale, ricatto criminale e terroristico, guerre spionistiche e civili, sterilizzazioni di terre e uomini, epidemie chimiche, tutte le strane cose che sta provocando questo vuoto repentino e assurdo nel teatro del mondo. Ogni giorno, senza che ci sia guerra, c'è un po' più di fuoco tra noi. La guerra degenerata in scontro tra blocchi di materia che stritolano folle umane costringe le tensioni estreme del bene e del male a frantumarsi, a vendicarsi del perduto sfogo elettivo. La civiltà prende colore di fuoco. Il campo minato è il marciapiede. Tra miliardi di segnali, l'uomo cammina senza nessuna guida. Nelle aggressioni armate di qualsiasi tipo prevalgono le armi da fuoco, con cariche laceranti, e il bisogno di bruciare, di ridurre in cenere, mentre la minaccia del missile e del combustibile nucleare in mano ad associazioni nichiliste si fa precisa. I soli crimini onesti sono quelli dei maniaci, che lavorano a mani nude o appena prolungate da uno strumento freddo. Ma il fiume pesante del crimine che attraversa le città insanguina per mezzo del fuoco; in certi luoghi si è accesa una guerra senza sbocchi e senza fini, incrocio vago della siringa e del volantino, dell'università e dell'asfalto. L'Italia è scavata da questa tlróle de guerre. Invece di quei molli otto milioni di baionette inventati da un applaudito fachiro, da un popolare ingoiatore di sciabole, abbiamo oggi sotto i piedi e intorno alle case una gigantesca cisterna riempita di fuoco, senza tranquillizzanti ombre di baionette. Siamo una Venezia tra canali di fuoco. E' un arsenale in movimento, incalcolabile e con proprie leggi economiche, completamente distaccato dai fi ni della difesa nazionale: chi sa, forse c'è più abbondanza di fuoco privato di quanto ne conti, nelle riserve pubbliche, la commissione di Falco Accame. Mentre i cannocchiali della difesa nazionale, dai buchi del frigorifero atlantico, scrutano tra gli sbadigli il Deserto dei Tartari della guerra impossibile, il fuoco della guerra che la surroga, a disposizione delle bande e delle frazioni armate, opera per proprio conto, senza disciplina né morale ma con una sua cadenza cupa. * * Il fuoco difensivo nazionale è il più puro di aggressività. Nessuno pensa che verrà mai adoperato, neppure se l'occasione si presentasse. Potrebbe spartirsi tra compiti di faticoso rastrellamento interno e cooperazione tecnica di qualche segmento nel sistema Nato. La lacerazione italiana è di una profondità che non consente di concepire una partecipazione nazionale attiva — non di soli strumenti o tecnici — a una guerra a cui fossimo chiamati dall'alleanza occidentale. Il lealismo atlantico può essere veramente accettato da chiunque. Si sa che l'America, in caso di ponte aereo per aiuto a Israele, non può contare sugli aeroporti italiani; forse, neppure per un combattimento destinato a salvare degli ostaggi è possibile contarci. I governi italiani appaiono incapaci perfino di lasciare compiere, da altri, per un buon motivo, per una causa umanitaria, un'azione militare. Diceva Gilas, qualche anno fa, a Londra: « E' meglio battersi sull'Adriatico che sul Canale della Manica ». Ma chi ci sarebbe, a battersi sull'Adriatico? Dei missili partiti da basi lontane, in caso di fuoco: un uomo non lo vedo. E i missili annullano ogni distinzione tra Adriatico e Canale della Manica: se non c'è l'uomo, il luogo non conta. Credo che Gilas intendesse dire che la volontà di battersi sull'Adriatico garantirebbe la pace alle scogliere di Dover. Ma se questa volontà di battersi deve passare per l'Italia è meglio che cambi strada: E se Belgrado chiama - lasciate che s'impicchi, sarebbe l'inno nazionale, il coro di tutte le piazze. E' pensabile un regime eurocomunista stabile, inspiegabilmente intelligente, ostrica della Nato, che mobilitasse la nazione in difesa di una Jugoslavia minacciata dall'Urss, come Gilas chiedeva all'Occidente? In una quartina di Nostradamus si prevedono grandi guai (anche fuoco in faccia) per quando /'/ Signore dell'Adriatico morrà, e i polemologi d'oggi non smentiscono il grande astrologo del secolo XVI. Tito è ormai un Francesco Giuseppe, il simbolo di una monarchia composita che rischia fortemente, dopo di lui, di sfasciarsi. Militarmente, oggi, conta per noi anche l'Ussuri o il trentottesimo parallelo, ma certo la frontiera di Muggia è più calamitante. Gli italiani, per restare fuori da tutto, faranno cose insuperabili: ma quel rimbombo cupo dietro 1" orecchio di Trieste, fino a quando potranno giurare di non sentirlo? Nell'Oriente mediterraneo assisteremo a cose straordinarie, perché il nodo israeliano e interarabo non finirà di complicarsi. Il destino potrebbe aver progettato un blocco israelo-egiziano con successivo prolungamento giordano-saudita (o palestinese: perché è il tuo Signore, dice il Corano, che ja ridere e piangere), una fortezza da Deserto dei Tartari parallela a quella dell'Europa occidentale, che aspetterebbe i cavalieri sovietici spiando la polvere e tenendo la coda della miccia nel fuoco atomico. Per Israele è forse la fine della parabola: la pace lo disgregherà, la guerra permanente prò aris et focis era il suo cuore vivente. La pace è un Eichmann che usa il pompelmo, il petrolio e I'arabizzazione. Diceva Golda Meir a Oriana Fallaci, nel 1972: «Quindici anni fa in Israele non c'erano quasi furti, né assassinii, né prostituzione. Ora invece abbiamo tutto, tutto... ». Golda è della seconda emigrazione, in cui erano tutti circoncisi di cuore e futuri vincitori di grandi prove. In quel suo sensato rimpianto passa un malinconico presagio. Non manca neppure, a Israele, quel segno sicuro di evoluzione irresistibile che è la diffusione del cancro ambientale. ★ * Se anche Israele entrerà nel sortilegio della guerra impossibile, tramonterà l'ipotesi (fondata sull'apparenza politica, ma di origine religiosa) di un suo legame necessario con una catastrofe di grandi proporzioni. Se tutto non va in fiamme per una scintilla partita da Gerusalemme, l'ombelico del mondo andrà cercato altrove. Tuttavia un segno è venuto. Dalla guerra del Kippur, il panico energetico, la corsa all'uranio, al plutonio e ai reattori nucleari, le trivellazioni deliranti dei mari, una ripercussione all'infinito di pochi, tremendi spari. Non c'è più misura tra la potenza di fuoco accumulata e l'ustionabilità umana, tra le cose incendiabili e la torcia incendiaria pronta. Siamo al di là di ogni guerra, avendo esplosivo per distruggere due o tre volte il medesimo pianeta. Per uccidere un uomo basta un piccolo colpo: perché farlo cuocere in un mare di napalm? Il vero vincitore delle guerre di questo secolo è la Materia, che ha continuato a vincere anche nelle paci. II soldato, quasi dappertutto, è stato vinto, dappertutto dove il braccio è diventato inutile e « l'ordigno non ha più alcuna relazione con l'arto » (Svevo, nella chiusa di Zeno). Anche quello del soldato è un mestiere, presuppone una civiltà che insegni alle mani a fare qualcosa, con badili, pialle, cazzuole, coltelli. La superiorità del soldato di Giap sull'americano è appunto nel suo essere un soldato, con risaie alle spalle: l'americano, alle sue spalle, ha la voragine delle macchine, è un amputato che muove dei congegni. L'Asia ha ancora soldati, l'Europa e l'America hanno uniformi, ordigni senza l'arto. La Russia è così temibile perché ha i soldati e ha il fuoco. I popoli che non hanno consumato troppa aspirina e morfina sopportano meglio il dolore fisico: ma la nostra sensibilità al dolore fisico, anche all'idea del dolore fisico, ci terrifica al punto da consigliarci qualsiasi resa. Nei nostri armadietti pieni di farmaci per bloccare ogni sintomo doloroso è scritta una parte della nostra segreta rinuncia a difendere la libertà con le armi, già alimentata stupidamente dal¬ la convinzione che non ce ne sarà mai bisogno. Opporre alle termiti corazzate russe il fuoco nucleare senza l'uomo, l'automatic balllefield, come fanno le difese atlantiche, non è un piano di vera difesa: infatti è un detenerli, un dissuasore puro, un esorcismo, qualcosa che ha lo scopo d'impedire che un coagulo di forze morali e materiali umane diventi necessario e la difesa si mostri come una camicia svolazzante, assumendo una forma. Il fuoco già regna. Tutti si vestono di fuoco, aggrediscono col fuoco, manipolano in casa e in cantina fuoco, trattano col fuoco. All'interno di un cerchio di mura incendiate, due o tre coppie di scacchisti giocano nell'ombra una partita assurda detta del Disarmo. Eppure esiste un disarmo perpetuo: il superamento sempre più veloce, infallibile, di ogni arma, i cui rottami enormi finiscono nei sepolcri d'acqua e avvelenano la luce che beviamo, un disarmo suicida e omicida, equivalente a un impiego in sordina dell'ordigno buttato. Possiamo già contare la bomba N tra le armi logorate e distrutte da mezza giornata di altalena del terrore. Sono bombeinfusori, bombe effimere, che deteriorano l'ambiente umano rimandando sine die la definitiva ustione, compilo di uno strumento incomparabile. E' un tempo di orazione e di raccoglimento, perché è ormai impossibile rompere l'assedio del fuoco, e dire spada, sia pure al figurato, non ha più senso. Di menzogne futili, come distensione o disarmo, un uomo onesto non può fare uso nel suo linguaggio. All'uomo non interessa di sopravvivere come specie, e neppure come civiltà. Niente di più stupido di un appello alla specie, che è una pura astrazione: solo la morte individuale è temuta. E la ragione astratta che predica la sopravvivenza urta contro magneti profondi, che occupano la terra e a cui i nostri visceri sono attaccati. La grandiosa vampa capace di liquefarci tutti risponde a un antico sogno. Non è una novità. L'uomo coltiva da sempre il sogno delle distruzioni totali. Cartagine, Gerusalemme, non sono state che esercitazioni, con mezzi inadeguati. L'incendio di Dresda fornisce appena un'idea. Hiroshima e il Vietnam si sono limitati a qualche prova dietro la vetrina. Adesso i mezzi cosi a lungo desiderati ci sono. Si esita col desiderio nella gola, come quando si trangugia saliva, ritardando apposta un piacere. E si accumula fuoco su fuoco: col pretesto dell'energia o della sicurezza i depositi di fuoco si dilatano e vivremo isolati in quel mare, tra poco. Mentre il fuoco ci affascina e calamita, ipocritamente manifestiamo il nostro rifiuto e la nostra vergogna umanitaria. Ma può darsi che la vergogna nasca dal sentirci indegni e incapaci di qualunque cosa grande, anche di una grande distruzione, preferendo vie più sordide e buie di sopraffazione e di violenza, di cancellazione della vita. La pace è la guerra che si può fare, la guerra che può durare di più: un paradiso per la nostra debolezza feroce. Perciò meglio l'indifferenza che lo zelo. Tra non molto rivedrò, qui dove vivo, le mimose fiorire: questo è felicità e pace, e l'uomo è da dimenticare. A glooming peace ibis morning ivith it brìngs. Guido Ceronetti