Elegia per giovani amanti fantastica opera di Henze di Massimo Mila

Elegia per giovani amanti fantastica opera di Henze MUSICA MODERNA AL TEATRO REGIO Elegia per giovani amanti fantastica opera di Henze La temuta «opera moderna», la cui inclusione in cartellone ha agitato le acque stagnanti della vita musicale torinese, è passata sul palcoscenico del Regio con discreto successo, applaudita (tre volte perfino a scena aperta!) da un pubblico non foltissimo, e diradato in maniera un po' preoccupante lungo il corso dei tre atti, ma in sostanza convinto della dignità musicale e scenica di questa Elegia per giovani amanti, che Henze aveva composto intorno al 1960, in stretta collaborazione coi librettisti inglesi Audcn e Kallmann. Il dubbio spesso avanzato che il linguaggio della musica moderna, quale si è venuto costituendo attraverso quasi un secolo di esperienze, di trasformazioni e perfino di rivoluzioni, non sia più adatto alla confezione di opere liriche nel senso tradizionale, fondate principalmente sull'esplorazione psicologica di personaggi individuali e sul contrasto dei loro interessi e delle loro passioni, questo dubbio viene smentito dalla presenza e dall'attività di Henze. che di opere ne ha prodotte ormai una dozzina e non cessa di progettarne con immutabile entusiasmo. Si potrebbe obiettare che il linguaggio musicale di Henze dia prova d'una modernità temperata, in quanto egli si è presto staccato dalla corrente dell'avanguardia darmstadtiana, cui pure aveva inizialmente partecipato, e invece di sviluppare con purismo settario soltanto le possibilità post-webcrniane del serialismo e della sua dissoluzione nell'aleatorio, prende il suo bene dove lo trova, con grandioso eclettismo, e so- prattutto non accetta la divisione manichea della musica moderna tra Strawinsky e Schònberg, ma al contrario miete tranquillamente nell'uno e nell'altro campo. Sono sottigliezze da professionali. In realtà il linguaggio musicale di Henze è moderno, con tutte le conseguenze e le difficoltà di penetrazione che il linguaggio moderno presenta, e in nessun modo può essere confuso col linguaggio tardo-ottocentesco, veristico e pucciniano a cui indulgono anche oggi, e talvolta con successo di pubblico, alcuni operisti. D'altra parte, si tratta di opere vere e proprie, non di azioni sacrali, allegoriche, ideologiche e comunque supcrindividuali. In particolare questa Elegia per giovani amunti è una storia interamente inventata, che non si appoggia a capolavori teatrali o letterari preesistenti, un intreccio nel pieno senso della parola, fondato sui casi di sei personaggi, quattro dei quali essenziali e determinanti, e due nel ruolo di validi caratteristi: quattro «caratteri », secondo la bellissima parola con cui in inglese si designano i personaggi d'un dramma. Come riesce, Henze, a mettere in moto gli ingranaggi della vecchia commedia a psicologia individuale per mezzo d'un linguaggio musicale che è (in quest'opera) fondamentalmente dodecafonico e seriale? Prima di tutto, con la straordinaria finezza timbrica di un'orchestra da camera nella quale abbondano non solo ogni sorta di strumenti a percussione, ma anche gli esili strumenti a suono corto, come mandolino, chitarra e arpa, e uno strumento a suono lunghissimo e flautato come la sega (potrebbe essere anche un fiexaton, o perfino le onde Martenot), che presta la sua voce cantante al misterioso rapporto medianico tra l'ispirazione poetica del protagonista, il borioso Mittenhofer, e le visioni di Hilde Mack. vedova sessantenne un po' scentrata, che da quarantanni nell'albergo alpino dell'Aquila Nera aspetta il ritorno del suo sposo scomparso tra le nevi eterne del Hammerhorn. Dunque la preziosità timbrica e caratterizzatrice, d'accordo. Ma soprattutto la ricchezza inesauribile con cui la fantasia del compositore riesce a dotare il discorso (specialmente strumentale) di incisi e invenzioni realmente consistenti, figure tematiche bene individuate, ancorché soggette alle norme della scrittura seriale. (Queste stesse, del resto, piegate talvolta a funzioni narrative ed allusive, che magari sfuggono all'ascolto, ma che sono sulla carta piccoli prodigi d'ingegnosità semantica, veri esempi di « leit-motivizzazione della dodecafonia: per esempio il fatto che il settemplice accordo da I cui sono accompagnate le solenni entrate del poeta sia formato dalle ultime cinque note della serie di Hilde Mack, per denotare la sudditanza dell'ispirazione di Mittenhofer alle visioni della vedova allucinata). be una cura verdiana di concisione, sono: nel second'atto la laboriosa operazione diplomatica con cui la giovane Elisabetta, amante dell'anziano poeta, gli rivela il proprio nuovo amore per il giovane Toni, figlio del suo medico personale, e nel terz'atto il patetico delirio dei due giovani che, sperduti nella tormenta, rievocano, per così dire, le vicende familiari della vita comune che non potranno vivere. protagonista, lottando certamente con le difficoltà della pronuncia italiana, ma dominando con sicurezza le esigenze dell'intonazione ed impostando il personaggio sul modello inuguagliabile fornitone da FischerDicskau. Vocalmente e musicalmente a posto il tenore Oslavio Di Credico, a cui manca solo un po' più di calore e di partecipazione per ravvivare il personaggio, del resto un po' scialbo, del giovane Toni, e gustoso caratterista Ubaldo Carosi nella parte del medico, specialmente ne' duetto comico del primo atto con la contessa Carolina, efficiente segretaria e mecenate del poeta. Il mezzosoprano Marjoric Wrighl ha buttato su toni di comicità un po' leziosa questa parte, che in Germania era divenuta appannaggio della grifagna e formidabile Martha Mòdi. Dovrebbe essere « vestita semplicemente, con un abito pratico ma costoso », invece l'hanno infagottata in un abito pacchiano e scomodissimo, che la costringe a muovere per piccoli passettini. E' l'unico personaggio che sia stato frainteso, mentre invece la regia di Flavio Ambrosini ha saputo cogliere il tono di commedia di quest'opera che non offre alla regìa pretesti napoleonici di grandi manovre, ma vuole essenzialmente buona recitazione, e qui l'ha avuta da almeno quattro dei sei cantanti, e dall'attore Eligio Irato, cui spetta la parte, non cantata, della guida alpina. La scena escogitata da Michele Canzoneri e realizzata dalla Scenopam, con la direzione tecnica di Aulo Brasaola, coglie abbastanza bene quel senso thomasmanniano di convivenza artificiale e mondana che è tipica dei grandi alberghi. Meno riuscita (ma non Io era nemmeno a Berlino) la scena dell'alta montagna nella tormenta, e un po' troppo schematico, programmatico, il barocco podio finale su cui il poeta sale a leggere la sua Elegia sui giovani amanti di cui egli stesso ha procurato cinicamente la morte. Come s'è detto, l'opera ha avuto discreto successo, con applausi a scena aperta e alla fine d'ogni atto, e chiamate all'autore, al direttore, ai cantanti, al regista e allo scenografo alla fine dello spettacolo. Massimo Mila

Persone citate: Credico, Eligio Irato, Flavio Ambrosini, Martenot, Martha Mòdi, Michele Canzoneri, Strawinsky, Ubaldo Carosi

Luoghi citati: Berlino, Germania