Cronache da Utopia

Cronache da Utopia INTELLETTUALI, SCRITTORI E ALTRI Cronache da Utopia Isola di Utopia, gennaio. Nella Repubblica di Utopia non ci si chiede mai se gli intellettuali siano vili o coraggiosi. Agli Utopiani importa soltanto che essi abbiano il coraggio di parlare: anche per dire che hanno paura. Gli intellettuali Utopiani non hanno peli sulla lingua. Ciò dipende da molti fattori. Innanzi tutto, dall'eredità della storia. Infatti in Utopia non sono mai esistiti prìncipi, corti, alti prelati che li abbiano tenuti in soggezione. In altre parole, gli intellettuali dell'Isola di Utopia non sono mai stati al soldo di nessuno. Qui, nelle strade, non succede mai che la gente mostri a dito uno di loro esclamando: «Guarda, quello è un intellettuale». Né in segno di disprezzo, né in segno di celebrazione. Questo, perché un intellettuale è ritenuto, ed è, uno dei tanti cittadini della polis: simile a un fabbro a un mugnaio a un calzolaio, ecc. Di conseguenza, non si nutrono per lui sentimenti particolari, sia di odio sia di simpatia. Non gli si chiedono, dunque, singolari doti di coraggio. Almeno, non più che ai suddetti fabbri mugnai calzolai. Parlando con gli intellettuali Utopiani, ho potuto notare che anche in loro albergano quel pessimismo della ragione e quell'ottimismo della volontà, di cui si parla tanto nei nostri paesi. Ciò denota che l'intellettuale Utopiano non è una figurazione astratta, non è un'oleografia, tanto meno è un souvenir da appendere al collo dei turisti. In Utopia non esistono intellettuali venduti. Né tanto meno vendibili. Dipende anche dal fatto che qui non esiste quel potere che da noi viene chiamato la Cbose (da Sartre) o il Palazzo (da Pasolini). Non esiste, perché quella Utopiana è una società perfetta: in quest'isola, il solo potere è quello dell'intelligenza. Che (incredibilmente) coincide perfettamente con la libertà e con la coscienza morale. Con l'amore e con la fantasia. * * In Utopia, dove non esiste l'industria culturale, non esiste di conseguenza l'industria della fantasia. E nemmeno i premi letterari. I libri non hanno prezzo di copertina. Poiché in Utopia vige l'economia del baratto (ma gli Utopiani la chiamano etica), se per esempio è un calzolaio che desidera «acquistare» il libro di uno scrittore, gli dà un paio di scarpe; se è un mugnaio, gli dà la farina; se è un fabbro, gli fa una serratura nuova; se è una madama, gli dà le sue grazie. Uno scrittore Utopiano non fabbrica mai la sua parte di falso. La sua sincerità è sempre vera. Egli non mente quando parla della verità, non mente quando parla del rispetto e dell'amore verso il suo simile. E non è mai combattuto fra la tendenza a essere migliore e la tendenza a vivere meglio. Non si lascia mai affascinare dall'opportunismo e dal pessimismo generico. I libri che si stampano in Utopia (mi riferisco soprattutto alle opere della fantasia, quali romanzi e poemi), non somigliano mai a oggetti di lusso o a scatole di cioccolatini. Sulla copertina, soltanto il nome dell'autore e il titolo dell'opera. Niente riproduzioni di quadri famosi che, talvolta, non hanno a che vedere con il tema della narrazione o del poema. I critici Utopiani esercitano oralmente il loro mestiere. In piazza. Apoditticamente. Di un libro dicono: è una porcheria, oppure: è un buon libro. Passano poi alla dimostrazione, chiara ed esplicita, dei loro assunti. Mentre nei nostri paesi i brutti libri non vengono mai recisamente stroncati (forse dipende dal fatto che ci conosciamo tutti) in Utopia li mettono in una apposita vetrina, detta la Gogna Letteraria. Gli scrittori Utopiani sono sinceramente amici tra loro. Il buon «successo» di un libro di X, non è motivo d'infarto per Y. Questo perché — come ho detto — in Utopia non esiste l'industria della fantasia. E la fantasia, non essendo industrializzata, non va soggetta alle leggi del mercato. Quindi uno scrittore Utopiano non diviene mai il manager di se stesso, o, se si preferisca, il megafono della propria opera. Qui politici non ne esistono, almeno nel senso che noi diamo a questa parola. Tanto meno nel senso che vi danno i nostri qualunquisti, che ne fanno sinonimo di politicanti. La politica, cioè l'arte di vivere insieme nella polis, in Utopia è gestita da tutti i cittadini. Quindi sono tutti politici: dai fabbri ai mugnai ai calzolai ai medici agli artisti ecc. Ciò avviene perché gli Utopiani sono creature dotate di splendente fantasia. Mentre noi parliamo di Realpolitik, e vi affidiamo irresponsabilmente i nostri magri destini, gli Utopiani parlano di Phantaspolitik. Noi diciamo: la Ragion di Stato; essi dicono: la Ragione della Fantasia. Sono, di conseguenz.., meravigliosi politici. Non ritengono infatti che la fantasia sia il contrario del reale, anzi pensano che l'intelligenza e la gestione del reale possano concretamente configurarsi soltanto per via fantastica. Non a caso, i loro migliori politici sono gli scrittori, i pittori, i musici: senza che, per questo, quella di Utopia sia un Repubblica pancstetica (come la sognava un musico tedesco, e che sarebbe una vera iattura). Net nostri paesi, invece, i politici (che sono pessimi politici) emarginano dalla polis gli artisti ravvisando in essi i loro naturali nemici: i nemici, insomma, dell'ottusa Realpolitik e della più ottusa Ragion di Stato. Tanto vero, che tiranni feroci e dementi hanno assai spesso bruciato libri e quadri nelle pubbliche piazze, fra le acclamazioni di masse rese bestiali dalla propaganda e dai veleni di orrende ideologie. In Utopia, sostengono al contrario che — essendo la polis opera di umana fantasia — la gestione di essa non può venire impunemente affidata a chi di fantasia è totalmente sprovvisto, e cerca di surrogarla con il furbo cinismo. In questa Repubblica, non esistono sciabole, non esistono cannoni, non esistono militari. Tanto vero che gli Utopiani hanno fatto da tempo il disarmo unilaterale. Ho chiesto a uno di loro: «E se il nemico vi assale?». Mi ha risposto che l'armarsi equivale a essere simili al «nemico», a nutrire la su3 stessa ferocia, a mancare di fantasia come lui. Come si vede, gli Utopiani hanno la religione della fantasia, il culto sacro dell'immaginazione. Questa mattina, per la strada, mi sono avvicinato a un Utopiano che camminava con aria distratta, con una lettera in mano. Pensando di fargli un piacere, gli ho detto che l'ufficio postale era proprio 11 di fronte. E lui: «Che volete che me ne importi?». «Scusate, vi ho visto con una lettera in mano. Credevo che...». «Non si tratta di credere», mi ha risposto l'Utopiano, «ma d'immaginare». Luigi Compagnone

Persone citate: Luigi Compagnone, Pasolini, Sartre