Lettere famigliari

Lettere famigliari Lettere famigliari di VITTORIO GORRESIO XI Chi sa se è vera, questa storia. Un'altra più sicura ne ho trovata nei registri parrocchiali di Bagnasco, dove alla data del 12 luglio 1786 è scritto in un bellissimo latino che l'illustrissimo signore nob. Candido Gorresio del fu Sebastiano, mentre tornava a casa fu ferito anche lui alle gambe, « scolopeti iciu », da una schioppettata. Cadde a terra, cecidit in terram, e più cercava di difendersi, e più falce seu alio instrumento percussus fuit: l'assassino, cioè, con un falcetto od altro arnese gli infieriva sopra, fintanto che il povero Candido Gorresio ebbe a dare segno di vita: vitae nondum amissae darei signa. « Un giallo in casa Gorresio », commentò pensieroso don Blengino che mi faceva leggere i registri parrocchiali. Scorrendoli insieme trovammo che il nostro primo battezzato risultava essere un nob. Abram Maria Gorresio sulla fine del 1600; Abram bel nome biblico, Maria bel nome che dimostra fede cattolica. Purtroppo i registri più antichi sono andati perduti perche la madre di un altro arciprete giunta a tardissima età ne aveva innocentemente strappato i fogli bruciandoli per accendere la stufa della canonica. Così bloccata ogni ricerca genealogica, con Sandra e un giovane sacerdote del luogo, don Riccardo Cravero, trascorsi un pomeriggio di gennaio a passeggiare nella neve per Bagnasco. Si potrebbe fare più presto a girarla perché è un piccolo borgo, e Sandra e don Cravero erano un po' stupiti della mia minuziosa attenzione, ma io Bagnasco la volevo controllare tutta, jnche sulla scorta dei ricordi personali che ne avevo. Vi ero già slato un'altra volta da giovanotto, in primavera del 1932, a fare « il campo » come allievo ufficiale di complemento della scuola di artiglieria di Bra. Eravamo al termine del nostro corso, e il campo era per noi l'ultima prova di maturità militare, quindi un momento di allegria come sa bene chi sotto le armi fino dal primo giorno incomincia a contare quanti ne mancano per terminare la naja. A Bra, comunque, ero stato benissimo per sette mesi. La città esalava puzza dalle sue concerie di cuoio, e in certi giorni l'aria non era respirabile. Qualche volta, di notte, mi toccava perlustrarla con un compagno di corso e un sergente maggiore, il ghiaccio scricchiolava sotto le nostre suole militari chiodate, e noi non sapevamo veramente bene a che cosa servisse la ronda in quel gelo e in quel buio, nelle vie deserte. Non c'erano malandrini, né incontravamo i sovversivi che in quei tempi di fascismo erano l'incubo del comando della piazza; tutti a casa a dormire, salvo noi tre. Passavamo davanti al « Battaglino », un celebrato ristorante: « Si mangia bene, eh — diceva immancabilmente il sergente maggiore guardandone l'insegna — ma ci vogliono soldi », e noi allievi a ridere cortesemente per uniformarci tlla rassegnazione del nostro superiore. Poi, per una strada che aveva un nome antico stupefacente — via Mendicità Istruita — ci spingevamo alla periferia, la giravamo tutta e tornavamo in caserma. « Novità N.N. » appuntava il sergente maggiore nel suo rapportino per il comando, e salivamo in camerata a rimetterci in bianda. Non era una vita propriamente esaltante, ma il fatto di stare a Bra mi dava qualche soddisfazione perché in quella città era nata mia madre, l'anno che il nonno Stefano vi era stato di presidio. 1887; così il ritorno a Bra a me pareva il segno di un rinnovato destino di casa. Poi finalmente, al termine del corso, la lunga cavalcata verso Bagnasco, altro luogo di pia cu¬ riosità famigliare, come ho detto. Scendemmo per i tornanti dell'altopiano una mattina che il cielo era sereno, l'aria frizzante, il sole vivo, in vista delle montagne dalle ombre violette e dalle luci di ghiaccio; ed a guardare indietro vedevamo lo splendido Monviso. O Piemonte: mi appariva « nel sublime fra tutti i suoi meravigliosi paesaggi », come ha scritto Mario Soldati nell'uscire appunto da Bra. Noi trottavamo trascinandoci i pezzi ed i cassoni a lato di praterie smeraldine, filari neri di g.lsi, lucide e violente bealere. Percorremmo le piane larghe vie di Cherasco, preziosa per le chiese e i palazzi, architetture religiose e civili di nobili forme, romaniche, gotiche, barocche. Quando fra i platani imboccammo il viale Napoleonico (nel palazzo Salmatoris d 28 aprile 1796 Bonaparte firmò l'armistizio con Vittorio Amedeo III) il mio capopezzo sergente maggi -e Vito Liaci, un pugliese grande e grosso, maestro di equitazione, alzando in alto il frustino ci dette il segnale del canto da intonare: « Trott... galoppa, siamo artiglier / viva l'Italia bella ed i suoi cannonieri ». Cantavamo contenti anche un'altra strofa — proibita dai comandi superiori — che però alimentava ancora meglio lo spirito di corpo: « Cessa la mafia, Piemonte Reale, / contro il cannone la lancia non vale... ». Era un po' un'insulsaggine, e ha bisogno di spiegazione. Fra noialtri cannonieri ippotrainati e la cavalleria (il Piemonte Reale era un illustre reggimento di dragoni, « Venustus et audax », quello di Massimo d'Azeglio) c'era una ruggine antica. Gli allievi della scuola di Pinerolo calavano in Monferrato per esercitazioni comuni, e noi ci esibivamo davanti a loro in mirabolanti manovre che cominciavano con la presa di posizione al galoppo su qualche altura, da dove sparavamo a tiro rapido con i cannoni 75/27, artiglieria leggera da campagna che aveva l'alto la prima guerra mondiale. Ma per quanto noi fossimo bravi, i cavalieri di Pinerolo ci snobbavano comunque: « Che bei zincatiti che Vitina ». che bei giocattoli abbiamo, dicevano con irridente benevolenza fruslacchiando le nostre piccole bocche da fuoco, ed era per questo che noi rispondevamo invitandoli a cessare la mafia: « Con irò il cannone la lancia non vale... ». Sulla strada per Bagnasco io cavalcavo come conducente di volata del primo pezzo della seconda batteria, ciò che significa che montavo il cavallo di sinistra della prima pariglia. Non era una gran distinzione perché il cavaliere considerato migliore è quello detto di timone che sta dietro al mediano nella serie dei tre conducenti, a ridosso del pezzo. Difatti poi. alla line del corso, soltanto i conducenti di timone, come i più bravi, erano qualificati per la nomina a sottotenenti nella « Voloira », il reggimento delle batterie a cavallo che era il sogno di tutti noi. Però debbo anche dire che a trottare e galoppare di volata in testa alle pariglie del mio pezzo, così vedendo davanti a me le strade delle Langhe, io mi inebriavo di immenso, almeno quell'immenso che era allora alla mia portala. Arrivati finalmente a Bagnasco di 'appa in tappa — da Narzole a Dogliani e da Dogliani a Ceva — dopo le tante brusca e striglia dei miei due cavalli, quello montato e il sottomano, il primo giorno di riposo andai a cercare una lavandaia per consegnarle la biancheria. La vita militare aveva allora questo di buone, che tra vivandiere e lavandaie la circondava e la assisteva una adeguala presenza femminile efficiente. Una bravissima donna si prese infatti l'involto delle mie camicie, corsetti a maglia, niutandoni e pancere regolamentari che mi avrebbe lavato a una fontana, e domandò: « Come si chiama, chièl? ». « Gorresio ». dissi. « Me car òm. lei allora è di qua, c'è via Gorresio qua ». La strada principale di Bagnasco è infatti intitolata al nostro nome, in riconoscente memoria di un tale Giuseppe Gorresio. capitano anche lui e sindaco del paese attorno ai primi dell'Ottocento, che morendo lasciò la sua casa al comune perché ne facesse un asilo infantile, che ancora esiste. Poco più avanti c'è un palazzetto che inalbera sul frontone dell'uscio lo stemma della nostra famiglia, un'aquila bicipite che sormonta un albero frondoso, e dal cimiero sovrastante scendono piume in abbondanza, volte all'ingiù forse perché lo spazio sotto al cornicione non aveva permesso allo scultore di farle meglio volteggiare verso l'alto. La neve accumulata sui rilievi rendeva difficile il riconoscimento dei particolari, ma conferiva all'insieme una deliziosa vecchia goffaggine. Mi raccontava intanto don Cravero che Bagnasco è famosa per il suo Bui du sabre, il ballo della sciabola, uno Schwerttanz che scende dalla tradizione contadina europea del XV secolo. E' una specie di rituale che a Bagnasco ricorda le soperchierie dei saraceni i quali salivano da Savona lungo la cosiddetta strada dell'olio e del sale a vessare gli abitanti della valle del Tanaro: « E chi mi dice — domanda a questo punto don Cravero — che il suo antenato Abram non fos:; invece un lbrahim, mussulmano? >.. Può darsi che i miei avi fossero turchi: « Gente col cranio piatto come il tuo ne ho visti anche in Anatolia », incalza Sandra durante la passeggiata per le vie di Bagnasco. (L.0,ìlinua)