Gli attori insanguinati di Giorgio Manacorda

Gli attori insanguinati LO SPETTRO DEL TEATRO SULLE VIE E NELLE CANTINE DI ROMA Gli attori insanguinati Si conclude il «diario d'uno spettatore» tra gli esperimenti teatrali avvenuti negli stadi, in campagna, in cantina, su terrazze e cavalcavia romani. Il primo articolo è apparso sulla Stampa del 7 gennaio. Roma, martedì ore 15, cavalcavia di Tordivalle. Autore-protagonista della performance è Dino Giacalone. Titolo: « Sarebbe bene che non fosse mei nato colui che medita su quattro cose: ciò che sta sopra e ciò che sta sotto, ciò che è prima e ciò che è dopo ». La Via del Mare va da Roma ad Ostia. All'altezza di Tordivalle (nota per il suo ippodromo ), un cavalcavia pittato di verde permette di attraversare questa superstrada domenicale. Dino si butterà dal cavalcavia su un camion che passa sotto a quaranta all'ora. Conosco Dino solo di vista: piccolo, con gli occhiali, sguardo mite, nero di capelli, barba eternamente malfatta. Oggi si è calato dentro una tuta verde da gassista di almeno tre misure più I grande del necessario. ChisI sa perché penso che glie l'ha prestata suo padre o qualche fratello maggiore. Non so se somiglia più a un clown o a un bambino. Ha qualcosa di indifeso dentro quella grande tuta. Ormai è senza occhiali. Si avventura sullo stretto cornicione del cavalcavia al di là della rete di protezione, verso il vuoto. E' pallido, gli tremano le gambe, si gira a stento, guarda giù. Le mani sono artigliate alla rete. Roma invasa dal sole e dal gelo, è bellissima. Si è radunata una piccola folla. Le macchine si fermano. Dino fa cenno al camion di partire. Dino non si butta. Il camion si ferma sotto il cavalcavia. Dino, crocefisso alla rete, è pallido, trema, mormora, anzi, quasi urla: « Non ce la faccio, non ce la faccio ». La folla sta in silenzio attanagliata dall'emozione. Dino non sta recitando: ha paura davvero. Eppure, mi dicono, in prova s'è buttato tre volte. Il tempo passa e la tensione aumenta: ormai è mezz'ora che è lassù. Cordelli sale sul cavalcavia, gli va a parlare. Vado anch'io. Vuole convincere Dino a rinunciare. Dino è stravolto ma l'orgoglio gli impedisce di tornare indietro. Vince Cordelli quando urla: « Ma che razza di artista d'avanguardia sei! Non stai mica recitando L'anatra selvatica che devi dire la battuta successiva! ». Convinto teoricamente, Dino, sempre aiutato da Cordelli che lo sorregge al di là della rete, si gira faticosamente e torna indietro. Un applauso sincero ha accolto la decisione. L'imprevisto ha scatenato in noi una partecipazione emotiva che, come spettatori, pensavamo di non essere più in grado di provare, ormai il cinema ci ha abituato a sorridere delle situazioni più tragiche ed eccessive. Ci siamo trovati di fronte ad uno spezzone di vita: la privata, occulta, emotività di Dino ha fatto irruzione sulla scena. Ci ha toccati e modificati, così come la vita di Dino non potrà più essere la stessa dopo questo grandioso fallimento e, quindi, questo perfetto successo. In un tunnel Ore 22. Stazione di San Pietro. Ieri ho ricevuto una lettera. E' quasi una poesia. E' la descrizione di un interno: una stanza in cui si riflettono i rettangoli di luce di una finestra. « La porta dischiusa articolava il piano della parete in cui era fissata. Da questo e da altro si allontanò chiudendo precisamente la porta dietro di sé ». L'autore è Gianni Dessi. Il titolo della performance è A lettera ■ B tunnel. Abbiamo letto A (la lettera) adesso andiamo a leggere B. Scopro che a Roma esiste la stazione di San Pietro. Nel cuore della città un posto appartato, come una stazioncina in un paese della campagna romana. Ci passa un trenino che porta a Viterbo e, mi dicono, anche a Monte Mario. Sotto la ferrovia passa un piccolo tunnel lungo sessanta metri, alto due, largo uno. E' pittato di bianco e illuminato da piccole plafoniere quadrate che mandano una luce azzurrina, come fatata, surreale. Saremo un centinaio. Vedo entrare le prime persone, una alla volta. Si fermano sotto la luce, alzano gli occhi, poi procedono fino alla luce successiva. E' il mio turno, soffro un po' di claustrofobia, ma pazienza. Alzo gli occhi e scopro che sulla plafoniera luminosa e azzurrina c'è una scritta: metaforicamente enuncia il mio andare nel tunnel. Altra plafoniera altra scritta e così fino alla fine. Siamo dentro una perfetta tautologia, ma non detta, non solo enunciata: una tautologia in atto. Siamo fisicamente entrati nella scrittura: la successività frastica del | linguaggio era rigorosamente diventata successività spaziale. La notte era buia e stellata. Abbiamo giocato a « flipper » in un bar lontanissimo da Roma eppure a due passi da San Pietro. Simone Carella cinicamente seguitava a sostenere che Dino si doveva buttare. Siamo tornati dall'altra parte del tunnel correndo, era un po' una festa. Dino mi ha chiesto che cosa ne pensavo del suo mancato volo. L'azione di Gianni Dessi è stata un perfetto esempio di teatro concettuale: pensato da un autore assente che ha proposto la sua idea « teatrale » alla realizzazione casuale del pubblico: abbiamo tutti recitato la scrittura pensata da Dessi, ognuno di noi era anche il pubblico di ciascuno di noi, in una sorta di proliferazione infinita e contigua dei ruoli della produzione teatrale (attore, spettatore, autore). Infatti eravamo anche autori: il nostro arbitrio, come l'imprevista paura di Dino il pomeriggio, poteva modificare in tutto o in parte l'evento pensato. Mercoledì, ore 21 e trenta, via degli Ausoni 1, quartiere San Lorenzo. Gruppo II carrozzone di Firenze. Titolo: Ombra diurna. Entriamo in una fabbrica, l'ex pastificio « Cerere ». L'edificio è fatiscente, semidiroccato. Non c'è luce elettrica. La notte riflette le sue ombre attraverso grandi vetri. Dentro un buio appena velato di luci saliamo per sei o sette piani. L'ombra di un uomo si staglia contro una grande finestra: urla di- speratamente. Passiamo nello | stanzone successivo. Le fine- stre sono due, sulla stessa j parete. In mezzo vengono i proiettate diapositive: una delle due finestre fotografata di giorno con una ragazza nuda e opulenta, nuda in varie pose: la fotografia di un oggetto per un qualche catalogo. Improvvisamente in un angolo dello stanzone si accende una luce al neon. Appoggiate a una parete ci sono Loriana (la ragazza delle diapositive) nuda e un'altra ragazza vestita. Si mettono a correre e vanno a sbattere a corpo morto contro la parete di fronte. L'impatto è violento. La parete cede, crolla in una nube di polvere e calcinacci. La scena è infernale. Il rumore cupo dei mattoni che cadono. Loriana e l'altra sono di fronte. Si corrono incontro e sbattono pesantemente una contro l'altra. Ripetono lo scontro dieci, quindici volte. Loriana sanguina, è sporca di polvere, piange. Dal fondo dello stanzone arriva di corsa Federico, alto, bello. E' a torso nudo, è rapato a zero. Si scaglia a corpo morto con tro Loriana, poi contro l'altra, poi contro Loriana, poi contro l'altra... Vengono sbalzate a terra, tra la polvere, tra i calcinacci. Lo scontro è impari. Sangue, lacrime, singhiozzi e urla delle due donne: « Vergogna! Vergogna! ». E' una violenza inaudita. Il pubblico non ce la fa più. Vedo Cecilia che fugge terrorizzata. Federico si rivolge al pubblico urlando esasperato: « Non vi basta?! »; « Andate vìa! Andate via! ». Così siamo ricacciati per le scale. Scendiamo in silenzio, provati da tanta violenza, da tutta quella disperazione. Con l'aria fresca della sera torna il problema assillante di questi giorni. Stiamo assistendo alla demolizione di ogni codice, di ogni convenzione « teatrale ». C'era Meme Perlini, aveva l'aria poco felice di chi in venti minuti è invecchiato di dieci anni. Quei venti minuti l'avevano duramente relegato nel passato. Perlini, Vasilicò Nanni o Ricci appaiono improvvisamente per quello che sono: dei prestigiatori che sanno smontare il codice e rimontarlo a piacere provocando piacevoli sorprese. Come al Colosseo Con lo spettacolo di stasera siamo al di là del codice, in una sorta di terra di nessuno in cui si può morire davvero. Non siamo più nella finzione, ma non siamo neanche nella vita. E' un fatto, però, che dopo decenni di straniamenti, sperimentazioni linguistiche, distanze vertiginose, alchimie strutturali, siamo all'affiorare prepotente del ricatto emotivo. Questi happenings vogliono coinvolgere, traumatizzare. Ma non hanno nulla di naturalistico, non sono ideologici, non de nunciano, non sono enfatici, non è «letteratura selvaggia», non c'entra Vengagement. E allora? Allora a che cosa serviva il Colosseo? I gladiatori facevano teatro o no? Sicuramente si trattava di spettacolo, ma altrettanto sicuramente scorreva il sangue. E la corrida cos'è? Si paga per vedere un dramma « vero », ma si paga. E' il pubblico che fa il teatro. Senza pubblico tutto ciò non succederebbe. Il bisogno sadico del pubblico romano costringeva i gladiatori-attori a scannarsi. Si ammazzavano senza nessun desiderio di ammazzarsi. Siamo ad un ritorno di barbarie? La violenza che percorre la nostra società si « rispecchia » nel teatro? Può darsi, ma al di là dei sempre troppo facili sociologismi, quello che si può dire è che ci troviamo di fronte ad un viaggio alle origini della tragedia. E' il tentativo di riscoprire il sentimento del tragico al di là delle alienazioni, dei « raffreddamenti » e dei troppi schermi che lo hanno reso impraticabile. Il masochismo (degli attori) come meccanismo per la « catarsi » (sadica) degli spettatori? Come si vede il mercato delle pulsioni ha rovesciato la « logica del Colosseo », ma solo per riscoprirla. Giorgio Manacorda Durante « Ombra diurna » della compagnia II Carrozzone

Luoghi citati: Firenze, Ostia, Roma, Viterbo