Andreotti regge per cinque ore la valanga di domande sul golpe di Silvana Mazzocchi

Andreotti regge per cinque ore la valanga di domande sul golpe Testimone nel processo dei cospiratori di Borghese Andreotti regge per cinque ore la valanga di domande sul golpe Ha risposto senza esitazioni su tutti gli argomenti, ignorando persino l'aiuto del p.m. sul segretissimo "Supersid" - Ha detto che Miceli gli tenne nascoste le bobine registrate in Svizzera Roma, 9 gennaio. L'estate del '74, il pericolo di un golpe per quel Ferragosto, le complicità degli ambienti eversivi vicini al «Fronte nazionale» di Borghese, ma soprattutto l'inversione di tendenza che la gestione Andreotti al ministero della Difesa impose all'amministrazione dei servizi segreti; questi sono stati gli argomenti del lungo interrogatorio che il presidente del Consiglio ha affrontato come testimone al processo contro i 77 «cospiratori» accusati di aver tramato contro la Repubblica. Pallido, stanco, Giulio Andreotti è entrato in aula alle 9 e 30; già sabato, a Catanzaro, aveva risposto alle domande della corte che giudica gli imputati per la strage di piazza Fontana sempre nella sua veste di ex ministro della Difesa. La chiave che scioglie l'enigma del suo «protagonismo» nei due principali processi politici di que sta stagione giudiziaria è proprio questa: cosa successe nel '74? Perché, nel giugno di tre anni fa, Andreotti decise di rivelare ad un giornalista che la spia fascista Giannettini era un informatore del Sid? Perché decise di credere all'inchiesta del generale Maletti — allora capo dell'ufficio «D», sicurezza interna, del Sid — e di dimettere l'ex capo del servizio Vito Miceli dal vertice dei servizi segreti, poltrona che il generale lasciò il 30 luglio? Il rapporto Maletti fu consegnato alla magistratura nel settembre del "74; in 56 cartelle erano riassunti i tentativi eversivi che aderenti al «Fronte nazionale» di Borghese avevano messo in atto dal 7 dicembre '70 e nei quattro anni successivi. Per la prima volta veniva confermato quanto un ex ministro dell'Interno (Restivo nel '71) e ancora un rapporto di un maggiore generale di polizia avovano smentito: un centinaio di fascisti, la notte del 7 dicembre '70, entrarono al Viminale per armarsi e far cadere lo Stato democratico. Su quali complicità potevano contare gli estremisti del «Fronte nazionale» o della «Rosa dei venti», la potente cellula veneta che qualcuno è arrivato a definire una specie di «Sid parallelo»? Andreotti ha risposto con calma per cinque ore consecutive alle domande. In mano aveva una cartellina gialla spiegazzata con dentro qualche documento da esibire: i suoi «memorandum» del '74. La cronaca dell'udienza si può dividere in tre parti: la prima dedicata completamente alla ricostruzione di come Andreotti da ministro della Difesa venne a conoscenza del rapporto Maletti e delle modalità usate dall 'allora capo del Sid Miceli per metterlo al corrente; la seconda centrata su quell'organismo supersegreto o «Supersid» che Miceli disse che «esisteva ed esiste» all'interno del servizio; la terza articolata sulle domande dei legali della difesa degli imputati, tutte provocatoriamente tese a mettere in luce quella che è sempre stata la tesi de1, generale Miceli: cioè come capo del Sid, sarebbe stato vittima di una manovra politica che ebbe come strumento Maletti e si concretizzò con una «montatura» giudiziaria che accusa gli imputati per un pericoloso «golpe» inesistente nel '70, come nel '74. Prima fase: Andreotti ha ricordato che, pur essendo stato informato il 6 luglio dall'ammiraglio Eugenio Henke, allora capo di stato maggiore della Difesa, che il generale Miceli gli avrebbe consegnato un documento preparato dal generale Maletti, si fece una riunione nel suo studio soltanto la domenica 14 luglio 1974: vi presero parte, oltre a Miceli e ad Henke, l'ex comandante generale dell'Arma, Mino, e l'ammiraglio Casardi, già destinato al vertice del Sid. Domanda il giudice a latere: «Si preoccupò l'onorevole teste di verificare se c'erano prove a sostegno di quel rapporto?». «Si parlò di molte cose, anche della verità sulla penetrazione al Viminale», risponde il presidente del Consiglio. Andreotti si alza e dalla cartellina gialla estrae un foglio e lo esibisce alla corte: contiene le disposizioni che durante quella riunione egli dette ai presenti e alla Guardia di Finanza perché approfondissero alcuni elementi di indagine. Il presidente del Consiglio va avanti e conferma quanto aveva già affermato Miceli e cioè che, prima della riunione di metà luglio, si incontrò con l'allora capo del Sid due volte e chiarisce anche che il rapporto Maletti consegnato alla magistratura risultava «incompleto» rispetto a quello esaminato nel luglio '74 perché alcuni nomi e circostanze non furono provati dal supplemento d'inchiesta. Seconda fase: il giudice Abate legge ad Andreotti la parte della deposizione di Miceli in cui si parla dell'esistenza del «Supersid». Andreotti comincia a rispondere con calma. «Non direi — dice — che le cose stanno così; in tempo di pace non esiste un organismo di questo genere: in tempo di guerra viene predisposto uno schema che opera a ridosso delle linee nemiche per raccogliere informazioni». Abate chiede precisazioni. Interviene il pubblico ministero Vitalone: «Mi oppongo», dice a voce alta, e sostiene che, secondo la legge dell'ottobre '77, il presidente del Consiglio non può né deve rispondere su argomenti coperti dal segreto politico-militare. Si associa paradossalmente anche la difesa di Miceli. L'avvocato Flick, anzi, vorrebbe che non fosse trascritta a verbale neanche la prima parte della risposta di Andreotti. «Del Supersid non si deve parlare — afferma — perché sull'argomento tra l'altro c'è una istruttoria a parte in corso». E dell'organismo supersegreto non si parla più. Andreotti tace: scivolano le domande. Si ritorna al rapporto Maletti, alla penetrazione nel Viminale, alla data in cui Andreotti ascoltò le bobine raccolte dal capitano Labruna e sulle quali si basa l'accusa. Il presidente del Consiglio ricorda che l'ascolto avvenne immediatamente prima che si recasse in ferie il 16 agosto del '74. Terza fase: Franco De Cataldo, radicale, difensore dell'avvocato Filippo De Iorio, ex consigliere regionale democristiano, chiede se è vero che Andreotti conosceva l'imputato ed aveva collaborato con lui dal '72 al '74. Il pubblico ministero si oppone e il presidente della corte non ammette la domanda, ma il presidente del Consiglio risponde lo stesso e spiega che conosceva De Iorio perché era del suo partito e dice anche che quando, nel luglio '74, lesse nel rapporto Maletti che De Iorio era implicato nelle trame eversive si incontrò con De Iorio, gliene parlò e dimostrò la sua meraviglia perché un consigliere regionale non si era comportato secondo i principi democratici del partito. «De Iorio mi assicurò che non era vero o che comunque si trattava di una montatura dei servizi segreti stranieri», ha detto Andreotti. In aula c'è un attimo di sconcerto: l'ex ministro della Difesa, acquisite notizie su un personaggio a lui noto, lo avvertì di quanto era venuto a sapere? Sembra un elemento grave, dato che Filippo De Iorio, quando mesi dopo divenne imputato, non fu arrestato perché fuggì ed è ancora all'estero. Nel primo pomeriggio l'interrogatorio finisce. Chi si aspettava una guerra aperta contro Miceli rimane deluso. Un solo particolare ha detto il testimone contro l'ex generale accusato di favoreggiamento: nel luglio del '74, Miceli non gli parlò delle bobine che il capitano Labruna aveva registrato in Svizzera, perché in quei nastri si faceva il suo nome, un'accusa che era destinata a segnare la fine del suo ruolo di capo dei servizi segreti e che lo avrebbe trasformato in un imputato. Silvana Mazzocchi

Luoghi citati: Catanzaro, Roma, Svizzera