Fece o subì l'unità?

Fece o subì l'unità? CENT'ANNI FA, IL 9 GENNAIO, VITTORIO EMANUELE II MORIVA A ROMA Fece o subì l'unità? Cento anni or sono moriva, in quella Roma che non amava affatto, Vittorio Emanuele II; fine senza splendore: da meno di due anni al governo la Sinistra dove non c'era un solo uomo che godesse la piena fiducia del re, già apparsi i primi moti socialisti nella forma violenta desiderata da Bakunin, fermissimo il no dei cattolici integrali (quasi tutta la burocrazia romana aveva accettato di essere cacciata via piuttosto che giurare fedeltà all'usurpatore), indomiti i repubblicani, che non erano poi i soli a non avere dimenticato le dure repressioni sui militari che avevano seguito Garibaldi nell'infelice tentativo terminato ad Aspromonte, né la fucilazione nel 1870 del caporale Pietro Barsanti, per un iniziato tentativo di rivolta militare in senso repubblicano. Tutto era fosco accanto al re morente; la primogenita Clotilde per scrupolo religioso non aveva mai voluto porre piede nel Quirinale, eguali scrupoli assillavano il figlio Amedeo, l'erede Umberto ferito dalla relazione matrimoniale di fronte alla Chiesa del re con « la bella Rosina », e la preferenza del padre per i figli illegittimi secondo le leggi dello Stato. Non c'erano neppure i bagliori del tragico inizio del regno, dopo Novara, la rivolta di Genova, riconquistata sanguinosamente, l'impatto con l'elettorato che mandava alla Camera deputati che volevano una impossibile ripresa della guerra con l'Austria. A cento anni di distanza, spenta in Italia ogni nostalgia monarchica e con essa ogni odio contro la dinastia, lo storico può considerare spassionatamente il personaggio. Nei manuali su cui la mia generazione s'istruì si consideravano quattro i grandi personaggi del Risorgimento, Vittorio Emanuele, Garibaldi, Mazzini, Cavour. Non è dubbio che il primo è il più dimenticato; il nome di Garibaldi dice ancora qualcosa, c'è un esile filo mazziniano, un giornalino, « Il pensiero mazziniano », Rosario Romeo sta dedicando a Cavour un'opera che consterà di vari volumi, e porrà in luce tutti gli aspetti dell'uomo e della sua vicenda, e la televisione potè, or non è molto, mostrarci il Cavour del 1858-59, « il tessitore » della unità italiana. Sul re, disceso da molto tempo il silenzio. * ★ E si deve aggiungere che anche in vita la popolarità del re fu ristretta, direi quasi schietta e sincera solo nelle vallate alpine dove teneva le sue battute di caccia. Anche a Torino ostile tutto l'ambiente cattolico, almeno critici se non ostili i molti giacobini; e la ferita del 1864 per aver portato la capitale a Firenze, malgrado ogni conciliazione formale, non si era più risanata. Nel Mezzogiorno non aveva fatto che apparizioni, ed era apparso come il simbolo di nuovi balzelli fiscali, in regioni dove i Borboni non compivano riforme né opere pubbliche, ma la fiscalità era poco gravosa. Se mai si tentò solo con Napoli di attrarre alla dinastia; si volle che ivi nascesse il futuro re, e che alla formazione del suo atto di nascita fosse teste un superstite dell'esercito costituzionale del 1820. Chi fu veramente Vittorio Emanuele? Nella famiglia Savoia appare come un intruso con la sua rudezza, il suo parlare libertino, le sue avventure amorose plebee, la sua mancanza di tatto (dopo il 70 l'imperatrice Eugenia esule che viene a visitarlo si alza sdegnata quando è ricevuta in un salotto dove sono esposti i ritratti di Guglielmo I, dei grandi generali tedeschi che hanno vinto la Francia e costretto Napoleone III a darsi prigioniero); bisogna forse risalire a quel suo quadrisavolo Vittorio Amedeo eli Carignano, amico del banchiere Law e speculatore edilizio a Parigi, per trovare qualche figura che emerga dal grigiore dei Carignano (a prescindere dal grande soldato che fu Eugenio, a cavalcioni del 1700 ed al servizio dell'Impero). Commediante e tragediante, per usare le espressioni che De Vigny pone in bocca a Pio VII, come sole parole che pronuncia in un immaginario contrasto verbale con Napoleone; bugiardo per fanfaronate, come ricorda il pur devotissimo Della Rocca, ricco di promesse che non manterrà, come appare dalla corrispondenza con Pio IX che illustra l'amico Spadolini, in fondo pieno di orgoglio aristocratico, non si troverà bene che con i fidi La Marmora, Della Rocca —■ che tra loro si detestano per tutta la vita —, lo scudiero conte di Castellengo, pochi altri nobili; recalcitra fino all'ultimo prima di dare il collare dell'Annunziata al borghese Luigi Carlo Farmi, che gli reca il plebiscito dell'Emilia; ma sta sull'attenti come un subalterno mentre Napoleone III dopo Magenta gli fa una reprimenda perché l'esercito sardo non s'impegna, lascia l'onere della guerra ai francesi. Non considera i maggiori uomini che ha accanto a sé: a Cavour che fa una sfuriata dopo Villafranca, dice « chiel l'è mac un birichin », perde ogni simpatia per Massimo d'Azeglio quando nel '55 questi gli manda la famosa lettera durante la crisi per la prima soppressione delle corporazioni religiose, perchè non accetti le dimissioni di Cavour, non distrugga l'opera iniziata con le leggi Siccardi (ma però segue quella esortazione). L'unità d'Italia si fa in modo diverso da come avrebbe potuto desiderare: con la conservazione della Savoia, con Torino sempre capitale, con un Concordato desiderato da Pio IX, con uomini come Balbo e Thaon di ReveI, conservatori cattolici, e probabilmente con una semplice federazione col regno delle Due Sicilie. Eppure, demolito sotto tanti aspetti l'uomo, proprio per essersi fatta l'Italia non come egli avrebbe desiderato ci si domanda se davvero sia da negargli quell'appellativo di « padre della patria » scritto sulla sua tomba al Pantheon e che tutti i manuali scolastici de! mio tempo ci tramandavano. Occorre non poca immaginazione per fantasticare che a mezzo Ottocento si formi una unità italiana senza Vittorio Emanuele; che senza l'alleanza con Napoleone III, le vittorie eminentemente francesi in Lombardia, l'affermazione di Napoleone III del principio di non intervento che salva i governi provvisori di Toscana ed Emilia, non sarebbero ritornati il granduca Leopoldo, i duchi di Modena e di Parma, il cui titolo poteva rinvenirsi nel trattato che aveva posto fine alla guerra del '59, e che Vittorio Emanuele aveva sottoscritto con la clausola « accetto per quel che mi concerne ». Impossibile pensare a Napoleone 111, l'uomo del 2 dicembre, che scende in campo per aiutare la formazione di una repubblica italiana; l'opinione pubblica francese era avversa alla formazione di una unificazione italiana, come di una tedesca; per la Francia era bene avere ai confini piccoli Stati. Solo il prestigio di un'antica dinastia, la convinzione inculcatagli da Cavour che il regno d'Italia avrebbe schiacciato carbonari e cospiratori, sarebbe stato, come fu, la sconfitta dei mazziniani, solo il suggello delle nozze di un napolconide con una Savoia, potevano muovere Napoleone III; ed il merito di Vittorio Emanuele è di aver non solo consentito alle manovre di Cavour, ma di averle assecondate, di avervi cooperato, fino al sacrificio della figlia primogenita. Può dirsi che Vittorio Emanuele subì l'unificazione, così come questa seguì, senza entusiasmo, con qualche amarezza, forse più presago di altri delle difficoltà in cui si sarebbe trovato il Paese con l'unificazione, soprattutto con l'unione di un elemento che gli recava uomini di sommo valore — gli Spaventa, Mancini, l'economista Francesco Ferrara, il giurista Scialoja; i maggiori per altro già acquisiti al Piemonte come esuli — ma profondamente eterogeneo. Ma questo « subire », venendo incontro al desiderio di tutta la classe politica del tempo (classe politica botghese, sì, ammettiamolo pure; e restringiamo anche: della parte attiva, fattiva, della classe politica); questo accettare ha il suo merito. Peraltro il punto saliente sta a mio avviso nell'inizio del regno: la conservazione della Costituzione, là dove il Papa, il re delle Due Sicilie, il granduca di Toscana revocavano, esplicitamente o di fatto, quelle concesse negli entusiasmi dei primi mesi del '48. Vittorio Emanuele detestava gli « avòcatas », gli avvocateci di cui era pieno il Parlamento; l'anno precedente il governo aveva dovuto mandare il generale Bava a recare un rimprovero al duca di Savoia, comandante di un corpo d'esercito, per pubbliche manifestazioni di questo disprezzo per i retori democratici che riempivano la Camera dei deputati. Il vero sentire del nuovo re si manifestò nella scelta del primo presidente del Consiglio, il generale conte de Launay — si disse consigliatogli da Carlo Alberto, e questo consiglio poteva implicare, se non il ritorno al governo assoluto, la non applicazione dello Statuto — come pensato da Carlo Alberto, non necessità per i ministri della fiducia della Camera, ampio uso del diniego della sanzione regia alle leggi —, un ministero di modeste figure, particolaristi o conservatori; ma già i primi di maggio, con la chiamata di Massimo d'Azeglio a presiedere il Consiglio, con le successive elezioni, fino a quelle che seguirono il proclama di Moncalieri, e che diedero un Parlamento conscio infine della necessità di approvare il trattato di pace, si ebbe la certezza che lo Statuto sarebbe stato rispettato. Il mantenimento del regime costituzionale in Piemonte, il suo evolvere in regime ove il governo deve avere la fiducia della maggioranza parlamentare, è veramente la premessa necessaria al Risorgimento, alla unificazione; e le forze che in senso opposto spingevano alla revoca non erano poche; non mancò persino in Val d'Aosta un tentativo di ripristino della vecchia bandiera azzurra; ma soprattutto la monarchia, ad evitare una ripresa di guerra con l'Austria, che avrebbe portato alla occupazione austriaca dell'intero Stato, era fortemente tentata a sciogliere la Camera dove abbondavano i fautori di questa ripresa di guerra, per non riaprirla più. Tolto il mito del re galantuomo, resta che ebbe l'intuito felice della via da seguire per non deludere la parte più viva della opinione pubblica (che era allora formata da una minoranza dei cittadini), e della via su cui poi entro un ventennio si sarebbero posti anche gli Stati che poggiavano ancora sul principio del re signore assoluto; resta che l'Italia d'oggi discende da quella scelta. Di storie immaginarie, e più belle, della unificazione italiana, se ne possono scrivere quante si voglia; ma la storia reale questo ci dice. A. C. J emolo