Lezione di vita morale di Massimo Mila

Lezione di vita morale Lezione di vita morale Le lettere dal carcere sono un genere letterario clic bisogna saper leggere, riconducendole alle circostanze della loro scrittura, in particolare a due condizionamenti: da una parte l'assillo della doppia censura a cui tali lettere venivano sottoposte, quella del direttore dell'istituto di pena e, per detenuti politici di particolare riguardo, anche quella del ministero dell'Interno, sottoponendo così il recapito ad esasperanti ritardi; dall'altra l'umano desiderio di tranquillizzare i familiari a cui tali lettere erano destinate — per lo più madri, o spose — sulla propria sorte. Così chi prendesse alla lettera quelle che Augusto Monti scrisse alla figlia da Regina Codi e da Civitavecchia, fra il febbraio 1936 e il febbraio 1939 (Lettere a Luisotta. Einaudi Editore; pagine 384, L. 4500), rischierebbe di andare ad aumentare le schiere di certi innocenti, francesi e nostrani, che piangono calde lacrime sulla «repressione» inflitta oggi ad assassini e teppisti mascherati da prigionieri politici, e s'immaginano delirando che invece le prigioni politiche del ventennio nero fossero comodi ostelli della gioventù, specie di foresterie della Fondazione Cini, dove a fortunati detenuti come Bauer e Rossi, Gramsci, Pajetta, Terracini e Augusto Monti appunto, fosse consentito creare le università dell'antifascismo. Soltanto dalle note che Monti preparò, a posteriori, per una eventuale pubblicazione, si apprende che anche allora i detenuti vivevano in tre in una piccola cella, godevano sì e no di tre quarti d'ora di «aria» al giorno, in uno spicchio triangolare di cortile cinto da alte mura e sorvegliato dall'alto da una guardia carceraria armata. E le università dell'antifascismo le crearono, sì, ma proprio in quelle condizioni, ammucchiati nelle loro men che fratesche cellule pullulanti di cimici, nel lezzo delle feci, vicino al bugliolo riboccante di piscio e di escrementi. E soltanto dalle note appaiono le crisi del detenuto per i soprusi ai quali veniva sottoposto, dal e contro il regolamento, l'inquietudine per le notizie di casa che non arrivavano, la rabbia per lo scempio a cui venivano sottoposti i «pacchi» confezionati dai familiari con tanto affetto nelle cinque feste annuali consentite, con sminuzzamento meticoloso di biscotti, frutti e vegetali, caso mai ci potesse essere una lima nascosta dentro un wafer, o una P 38 dentro una banana. ★ ★ Chi legga queste lettere senza tener presente che esiste un artificio stilistico denominato ironia o, in tedesco, Galgenbumor, potrebbe davvero credere che nelle prigioni in cui Monti soggiornò, ammalandovisi fino a rischio della vita, tutto andasse per il meglio nel migliore dei mondi possibili, secondo la formula panglossiana che vi ricorre di continuo. E rimarrebbe deluso anche chi si aspettasse di trovare in queste lettere nobili professioni di fede politica e interessanti approfondimenti ideologici. Per il semplice motivo che non si potevano toccare tali argomenti, pena l'annullamento della lettera ad opera della censura. E quando magari il detenuto Monti tali argomenti li toccava, non lo faceva per i suoi corrispondenti e familiari, che del resto non avevano nessun bisogno d'essere indottrinati, dato che sapevano benissimo cosa dovevano pensare, ma lo faceva per cantarle chiare alla censura ministeriale, e tali prese di posizione ora giacciono sepolte sotto una fitta patina di nerissimo inchiostro. Niente politica, dunque, e niente ideologia, ma continue aperture letterarie verso la vita della natura spiata attraverso i crudeli schermi delle finestre carcerarie, un'assidua registrazione poetica dei moti delle stagioni. un filiforme contatto esiodeo con le opere e i giorni dell'anno. «E' arrivata la tramontana...» «Nuvole a stormi, mandorli in fiore...». «L'estate è arrivata...». «Una di quelle giornate che s'aprono come una corolla di campanula all'alba». «L'annuncio dolcissimo dell'autunno, con queste miti giornate settembrine». «E' piovuto, s'è rifatto sereno, s'è intiepidita l'aria e s'è rifatta rigida». Tutto un calendario del carcerato, cui l'avaro contatto col mondo esterno acuisce il gusto, già naturalmente forte in Monti, per la vita dei campi e della natura. Niente politica, dunque, e molta meteorologia, ma lezioni di vita morale sì, anzi, una sola, ininterrotta lezione di vita morale, in continuazione diretta con quella che Monti professore impartì a generazioni di studenti. A cominciare dal carcere così serenamente sopportato, senza piagnistei ottocenteschi, in una costante simulazione di buon umore che solo un'indomita energia interiore poteva consentire. A quale prezzo, solo qualche spiraglio di queste lettere può permettere d'immaginare in via d'ipotesi. Ecco, per esempio, l'ora triste del detenuto. «La sera, quando consumato il vitto, venuta la conia, taciutesi le macchine, rientrati tutti i frati nelle celle o nei cameroni, piomba sul convento la cappa delle ultime ore della giornata, interminabili e tetre: su e giù, come pendoli, e i pensieri vengon di lontano come uccelli che fuggon davanti alla neve; e chi non e forte si sente disfare, come zolla sotto la pioggia. Ma noi siam forti, forti e gagliardi...». Lezione di vita morale il duro rifiuto di «pentirsi» opposto al consiglio di disciplina di Regina Coeli, che abusivamente esigeva questa condizione per la concessione della libertà condizionata. «Vostro padre — sussurrò una volta una guardia carceraria a Luisa Monti mentre la riaccompagnava fuori all'uscita da un colloquio col detenuto — è un vero uomo». E di essersi comportato «da piemontese e da uomo» si congratulò con lui il senatore Agnelli (quello d'una volta), che in un primo tempo aveva creduto di poterlo far liberare da un giorno all'altro, previa la piccola formalità d'una domanda di grazia al duce. Lezione di vita morale la dura condanna per la sorprendente conversione in articulo mortis d'un maestro di laicismo. «Per un sovversivo, e libero pensatore, e filosofo positivista, arrendersi così in fin di vita m'era parso grave assai: e poco perdonabile. In materia di fede — anzi, di fedi — io sono, lo sai, la persona più tollerante di questo mondo: ciascuno per me dev'essere padrone d'andare in paradiso per la via che più gli piace; ma c'è una categoria di gente con cui io non posso essere transigente: la categoria dei miscredenti. A costoro io non posso permettere di mollare: mai! caspita! molto comodo far il Satanasso tutta la vita, dar la baia alla buona gente che va a messa, godersi insomma su questa terra il paradiso della libertà di pensiero: e poi, un minuto prima di sparecchiare, comprarsi con pochi spiccioli un biglietto — non si sa mai — anche per quell'altro paradiso! Capperi: la botte piena e la moglie ubriaca! troppo!». Monti aveva un aspetto di moralista arcigno, e ai suoi matricolini di prima liceo incuteva alle prime una paura terribile. Nella sua classe si sarebbe sentita volare una mosca; nella sua classe non avveniva nessuna delle piccole viltà scolastiche, suggerimenti agli interrogati, copiature di compiti, denunce, spionaggi tra compagni. Quelle rarissime volte che qualche scorrettezza scolastica avveniva, allora la furia breve di Monti era terribile: il pugno picchiato sulla cattedra schioc- cava secco come una pistolettata, li bastava a ristabilire l'ordinato viver civile della scuola per set limane, per mesi. Durante i quali la scolaresca a tutta prima sbigottita veniva scoprendo in quell'orco il più allegro dei compagni, il più ameno e affettuoso padre-maestro. Tali sono pure queste lettere: nel tono generale di «euforia morale, che certe volte assume quasi la forma di ebrietà, e può persino urtare chi non l'intenda», spunta fuori a tratti la durissima spina dorsale dell'intransigenza morale, la rocciosa fermezza dell'uomo «che voglia esser uomo», dell'uomo che voglia pagarsi il «lusso inaudito, in questi chiari di luna, di portar la testa alta come il SS. Sacramento». E di quell'euforia, che ai professionisti dell'angoscia esistenziale può parere ottimismo irresponsabile, egli stesso, guardandovi in fondo, trovava che «la radice ne è tutta, e solo, questa: il mio combaciare con la sofferenza d'Italia, l'appagamento della mia coscienza di sofferente, di dolorante, nel soffrire e nel dolorare di tutta la mia gente». L'ottimismo storico di Monti trovava il suo fondamento in una fede nel progresso che può parere ingenua soltanto a chi non possegga nel sangue una percentuale di ferro superiore alla media, come lui ce l'aveva in quel suo corpo gracile («smilzo, grinzuto, occhialuto» egli stesso si descrive). Di quella fede ecco, in una di queste lettere, la memorabile professione. «Resta solo che tu ti corregga del tuo pessimismo, che permane — come io vedo — in te, anche dopo che hai imparato la storia, anzi si accresce. Progresso? Non esiste? Anzitutto ti dirò che il Progresso è un po' come Dio: bisogna crederci per farlo esistere. E poi, anche ragionando a posteriori, lo spettacolo che offre la storia non è insomma spettacolo di pro grcsso, cioè di accresciuto senso della dignità umana, cioè di sempre più alta e vera libertà? E Roma, perciò, non vai più di Atene? e il Cristianesimo, con lo sparire della schiavitù, non vai più del mondo classico? e il moderno con le conquiste dell'Umanesimo, più del medievale? e il contemporaneo, con i diritti civili e politici, ancor più dei precedenti? E non opponetemi le classi che proprio oggi tali diritti di libertà patiscono in Germania per cs. e in Russia; perché io rispondo che il presente è lava in moto, e giudicarne si potrà solo quando la colata sarà fredda e ferma; ma badiamo agli ultimissimi episodi — già solidificati — della storia universale: Napoleone I e la grande guerra: ebbene, che cosa ci insegnano rispetto a consimili episodi di storia più antica? questo: che l'una e l'altra volta ha vinto il rispetto della dignità umana, la libertà. Nella guerra mondiale son ruinate, nonostante la loro forza, proprio le potenze antiliberali: Germania, impero Austro-Ungarico, Russia; e Napoleone fu vinto appena ebbe tradito i principi liberali da cui aveva preso le mosse. Trovami nelle storie più antiche una simile nemesi: dov'è?». Non era soltanto alla figlia che Monti faceva lezione, ma al censore, che lo riferisse al ministro dell'Interno, il quale lo riferisse al duce: coi diritti di libertà oppressi «in Germania e in Rus- j sia», e con la nemesi che aspetta immancabile gli oppressoli. In queste lettere private si perpetua l'opera pubblica di educatore alla vita moderna che Monti svolse per tutta la vita attraverso la scuola classica, formando, come il Prometeo goethiano, una razza d'uomini a sua immagine e somiglianza, che non avessero paura né dei tiranni né degli dèi. Massimo Mila

Luoghi citati: Atene, Civitavecchia, Germania, Italia, Roma, Russia