Lettere famigliari
Lettere famigliari Lettere famigliari ii Ame, l'idea del diavolo in lotta con il santo di famiglia non faceva molta impressione. Tutta la storia mi fu raccontata quando ero già grandino, appunto per evitarmi il raccapriccio dei terrori infantili, ma per di più fui anche messo in guardia da mia madre: «Sono storie che raccontano le monache», e nella frase c'era un tono di compatimento per quelle poverine. Lo stesso zio Giovanni, quando andava a trovare il fratello Stefano marito di Nonnina, qualche volta si lasciava andare a confidenze: «Ohi mi mi, cole teste binda». Teste bendate, fasciate a stringere il cervello, erano quelle delle monache che zio Giovanni aveva molto in pratica essendone stato prima il cappellano e poi per circa vent'anni il vicario moniale, cioè il delegato del vescovo per la salute spirituale delle religiose. Egli le amava come sorelle in Cristo, ma ciò non gli impediva di permettersi in famiglia apprezzamenti diversi. A me sembrava lecito condividerli c riderne, e mi piaceva molto che il santo della nostra famiglia fosse di quella fatta. Mi era simpatico anche perché sapevo che da piccolo era stato un birichino spiritoso di allegrissimo temperamento. Nelle scuole elementari pubbliche, dove aveva avuto Edmondo De Amicis vicino di banco, si era distinto «per la lepidezza delle trovate con cui faceva ridere i compagni, mettendoli bene spesso nell'imbarazzo per il parlare faceto e arguto». Era uno spirito candidamente burlesco, ed in famiglia si ricordavano le sue marachelle di quando in montagna, a Vernante, ospite per l'estate di una vecchia zia materna Bogetti, «... tutti i giorni ne faceva una. Ma erano cose innocenti e oneste. Una volta metteva alcune foglie di jrtica nel letto della buona zia; altre ] a ] volte spalmava di miele la chiave della camera sua, e un giorno giunse persino a indossare le sue vesti e a fate la pagliacciata!». Doveva essere anche un po' prepotente. Uno zio canonico, don Stefano Lione, che officiava nella chiesetta dei Tarlapini, lo aveva incaricato di servirgli la messa ogni due giorni, alternativamente con il fratello maggiore, Stefano, mio nonno. Ouando non faceva il chierico doveva fungere da sacrestano, e gli sembrava una menomazione. Propose quindi a Stefano: «Se tu suonassi tutte le mattine la campana, accendessi le candele e lasciassi a me di servire la messa, non andrebbe più bene? Se ci stai, io ti dò tutti i giorni la parte di dolci che mi spetta a tavola». Pare che Stefano mio nonno fosse generalmente abbastanza remissivo nei confronti dello scatenato suo fratellino, ma quella volta disse rotondamente di no. Però il tes'ardo futuro santo non si dette per vinto e si appellò allo zio canonico ottenendo che la messa fosse quotidianamente servite da tutti e due: «Ed era felice — mi raccontavano in casa — più che tutto per l'amor proprio soddisfatto». Poteva essere un peccato di orgoglio, ma eia commesso a un fine edificante, quasi che già da piccolo egli sentisse la sua bella vocazione. La Provvidenza, tuttavia, tardò molto prima di rendergliela chiara, tanto che prima di farsi prete il mio prozio aveva studiato da medico a Torino, si era laureato, e di ritorno a Cuneo aveva esercitato la professione per sei anni, a quanto pare brillantemente. | Ma già allora diceva: «Il medico cura gli ammalati, e Dio li guarisce», ciò che poteva sembrare una battuta di spirito dettata da un sano scetticismo professionale; ma invece occorre dire che egli la metteva in pratica con serietà. 'Jna suora giuseppina, Luigia Mattone, rac¬ contava a noi della famiglia di avere patito dolori acutissimi a un braccio, che già due medici avevano giudicato incurabili. Venne il dottorino Silvestro, esaminò, palpò, fece delle smorfie, prescrisse delle frizioni e concluse: «Si raccomandi alla Madonna della Riva». La suora fece una novena in quel santuario che a Cuneo raccoglie innumerevoli testimonianze di grazie ricevine dalla Vergine, e , l'ultimo giorno vi incontrò il ! dottorino che le disse con aria I serena: «Guarirà, ho pregato per lei». Guarì difatti perfettamente, ed anzi il braccio, che per i dolori si era alquanto contorto ed accorciato, ritornò presto alla forma normale. E' come dire che il mio prozio praticava la medicina in stretta associazione con Maria Santissima, alla quale si era votato fino dai tempi dell'univer- ] sita. In un suo quadernetto di studente si trova annotato questo fermo proposito: «Occorrendo, per dovere di studio o di professione, di aver a parlare di cose delicate o di vederne, sarà mia premura di raccomandarmi con una giaculatoria alla i Vergine Maria, perché con la ! sua grazia cancelli dalla menle ] e dal cuore qualsiasi rimasuglio i di cattiva impressione». Sante, , dunque, le industrie di quel gioI vane per mantenersi puro, ed in premio gli giunse la grazia della chiarnat.' al sacerdozio. Avvenne in maggio del 1876, mese mariano che il mio prozio volle trascorrere in pellegrinaggi, prima a Nostra Signora del- Un'immagine invernale della chiesa di San Francesco, nel cuore de 'a vecchia Cuneo
Persone citate: Bogetti, Edmondo De Amicis, Luigia Mattone, Maria Santissima, Stefano Lione
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