Lettere famigliari

Lettere famigliari Lettere famigliari di VITTORIO GORRESIO Vittorio Gorresio comincia da oggi la seconda parte delle sue memorie: Lettere famigliari. La prima parte, che s'intitolava Lettere da Cuneo, pubblicata a puntate da La Stampa nel luglio 1977, raccontava gli anni dell'infanzia, tra l'impresa di Libia e la «grande guerra», nel cuore del Piemonte, piccola patria delle famiglie paterna e materia. IN famiglia noi avevamo anche un santo, o per lo meno lo credevamo tale: monsignor canonico Giovanni Maria Silvestro, fratello del mio nonno materno Stefano colonnello degli alpini. Non lo conobbi, perché era morto il 10 aprile 1909 prima che io venissi al mondo. Era il sabato santo di quell'anno, e a mezzogiorno le campane suonavano a festa per annunciare la gloria della resurrezione di Gesù Cristo, alleluia, alleluia, ed anche il mio prozio saliva al cielo dopo sette giorni di una penosa polmonite basilare doppia. Gli era rimasta la bocca spalancata, e non si riusciva a chiudergliela per quanti sforzi facesse il medico, cav. dott. Giovanni Chiarlone, che era anche lui della famiglia avendo sposato la zia Francesca, sorella minore di Stefano e di Giovanni Maria Silvestro. Mossa dalla fede, la madre superiora delle suore giuseppinc disse al lora al cadavere con santa semplicità: « Padre, lei che ci ha dato sempre tanti esempi di ubbidienza, permetta che la preghi di ubbidirmi: tenga chiusa la bocca ». Leggo a pagina 361 del libro di memorie di un agiografo amico (Don Dalmazio Peano, Monsignor canonico G.M. Silvestro, Cuneo 1924, pp. 461): « Cosa mirabile! Ripetuta appena la prova, la bocca rimase chiusa! ». E fu il primo miracolo. Un altro segui subito, e apparve anche più straordinario perché stava a denotare il sovrannaturale dominio del mio prozio non solamente sul proprio corpo dopo morto, ma anche sulla materia a lui estranea. I sacri ceri accesi attorno alla sua salma ardevano, sì, ma non si consumavano che in misura irrisoria: diminuirono di soli 19 centimetri in ben 52 ore, un calo che avrebbe dovuto registrarsi in 12 ore e 26 minuti primi, secondo la perizia che il parroco della chiesa del Sacro Cuore fece compiere al for- j nitore delle candele, il ceraio cuneesc signor Emilio Bagnoli. « Miracolo? — mise costui per iscritto —. Non spetta a me di giudicare, ma ho tutta la fiducia che monsignor Silvestro, così santo, ne otterrà molti dal Signore! ». Un prodigio del genere è raro, insegnavano in casa a me bambino. Se ne era avuto uno nel XII secolo con le candele accese il giorno dell'Assunta davanti all'immagine della Vergine nella basilica di Santa Maria Maggiore a Roma; e un altro a Bourges nella primavera del 1721 durante un funerale di settima o di trigesima I in suffragio dell'anima del pa¬ pa Clemente XI, Albani: anche quelle due volte i sacri ceri non si erano consumati. A Cuneo si fece la supposizione che la differenza di tempo fra un consumo normale e quello eccezionalmente ridotto nel caso del mio prozio contenesse una arcana indicazione: « Oh! — ha scritto l'amico suo don Peano i strò di udire ogni pa-ola distin- —. E perché, ipotesi per ipotesi, non si potrebbe piamente vagheggiare anche questa, che il buon Dio abbia voluto, col consumarsi della cera pei alcune ore dinnanzi al corpo di monsignor Silvestro, indicare il tempo del suo purgatorio? ». Fatti bene i calcoli, quel tempo sarebbe stato un po' meno di 39 ore, una durata davvero minima, da santo. A conforto di tale edificante idea stava il fatto che in punto di morte il mio prozio aveva visto la Madonna per tre quarti d'ora. Ricevuto il viatico nel pomeriggio del venerdì santo, egli si era lamentato con dolore: « Io sono grandemente penato... La Madonna non viene! Non viene, non viene... Eppure me l'ha promesso! Che sia stata un'illusione mia?». Ma illusione non era stata, perchè la notte, mentre si recitavano le pregniere per i moribondi, alle parole /amia Coeli delle litanie per ia Madonna « il volto del morente si trasfigura — hanno lasciato scritto due testimoni, suor Tecla Ciravegna e suor Redenta Tebaldi — e con stupore di tutti si siede di scatto sul letto, incrocia le mani sul petto, le protende in atto di abbracciare, le batte in segno di gioia, sorride con un sorriso celestiale, fa inchini ripetuti, manda baci infuocati con ambe le mani e si sforza per andare incontro alla celeste calamita ». Gli domandano: « E' venuta la Madonna? La vede? E' bella? ». Lui risponde con un ooh!... lungo lungo alzando le braccia al cielo. « Particolare degno di nota si è che, mentre prima monsignor Silvestro era sordastro, durante tutto quel tempo dimo- tamente, anche quando si parlava a voce bassa ». Simili estasi, divini rapimenti, ne aveva del resto frequentemente provati in vita sua. Fino dal tempo in cui non era ancora stato ordinato sacerdote si prosternava nella chiesa di sant'Ambrogio, al fondo di via Roma, per adorare il tabernacolo in tale atteggiamento che il vice curato don Stefano Cavallo era indotto a pensare: « Ma certamente egli vede Gesù... Gesù gli parla! ». Entrava da una porta laterale, e assi¬ curatosi che in chiesa non ci fosse nessuno la attraversava strisciando ginocchioni. Anche nella cappella pubblica del piccolo monastero di san Giuseppe sostava tanto a lungo che suor Gertrude la sacrestana sospettò che si trattasse di un ladruncolo in attesa dell'occasione di svuotare le cassette delle elemosine o di appropriarsi dei cuori votivi d'argento appesi alle pareti. Chiamò una guardia di città che lo sorprendesse in flagrante, ma la guardia lo riconobbe: « E' il dottorino Silvestro, conosciuto da tutta la città, la gioia della sua famiglia, il padre dei poveri. Che tòpica, che tòpica! ». Un'altra volta, camminando fra i binari della tranvia a vapore di Borgo San Dalmazzo rischiò di farsene travolgere: « Lo strano sta in questo — raccontò poi lui stesso — che 10 sentivo benissimo dietro di me la tranvia, e udivo il suono concitato della cornetta; ma ero distratto, in quel momento, e non pensavo a mettermi in disparte ». Per fortuna, lo tolse di pericolo un postino che passava, Giobatta Conte, agguantandolo brusco per un braccio. Lo aveva scambiato per un matto perché Io vedeva « a gesticolare, a ridere, come se parlasse con qualcuno ». Spiega 11 canonico Peano che l'interlocutore era Gesù: « Per monsignor Silvestro, Gesù-Eucaristia lera dappertutto, in chiesa, in camera, in piazza, nelle vie! ». Forse per questo, il diavolo 10 aveva preso di mira e lo j andava a tormentare di notte. 11 mio prozio alloggiava nel convento delle suore giuseppine di corso Gesso 17, e appunto quelle monache hanno attestato sotto giuramento che nella camera da letto del loro veneratissimo padre si ripetevano di notte scontri implacabili con il demonio. Generalmente il fatto cominciava con una serie di rumori strani, simili a grugniti di maiale, alternati con grida lamentevoli. Seguivano latrati di cagnacci, cui andavano aggiunti in un crescendo pauroso urla sguaiate, o stridule, o cavernose, tutte da far gelare il sangue nelle vene. E poi un colpo di bastone, uno strillo, sul sottofondo di gemiti e di lamenti continui; infine, distintissima e vibrata, la voce di protesta del mio prozio che al diavolo intimava: «Va via, bruttacelo, lasciami stare, va via badagli ». Badagli è un termine dialettale cuneesc, oggi in disuso, come badala, che -ignifica scemo, toc^o, ebete, in accezione più di scherno che di malanimo, e il mio prozio voleva così esprimere il suo stupore per la presunzione del demonio di prevalere su di lui. Ma la prova era dura, tanto che poi seguiva un'invocazione supplichevole ripetuta tre volte con voce sempre più affannosa: « O Maria, mamma mia. aiutami. Perché permetti queste cose? Aiutami, sono tuo figlio ». La testimonianza auricolare giura- | ta è delle suore Marina Penazzo e Giovanna Viglietti, le quali hanno tenuto nota anche della data precisa di quella satanica sfida: accadde il 18 febbraio 1909, giovedì grasso quell'anno, verso le dieci di sera. (Continua) Cuneo. Il viadotto sul fiume Stura, una delle immagini caratteristiche della città

Luoghi citati: Borgo San Dalmazzo, Cuneo, Libia, Piemonte, Roma