Il guaio di essere troppo intelligente

Il guaio di essere troppo intelligente Il guaio di essere troppo intelligente Scrìvere, a ventiquattr'anni, un libriccino di grande e immediato successo, è davvero una fortuna per un filosofo? Certo, non è un avvenimento consueto, se si consideri che i pensatori più celebri — Hobbes, Kant e quanti altri! — scrissero le loro opere maggiori quando già si trovavano sulla soglia della più tarda età. E a leggere questa recentissima e affascinante autobiografia di uno dei rappresentanti più significativi della filosofia inglese contemporanea (A. J. Ayrc, Pari of my Life, London, Collins, 1977) si direbbe di no, che non è una fortuna acquistarsi fama troppo giovani: c'è il rischio di veder il proprio nome associato per sempre alla prima opera, se non di fungere addirittura da comodo bersaglio all'impazienza delle nuove generazioni. A Oxford Tale è il caso di Ayrc, anzi per l'esattezza di Sir Alfred Ayre, titolare della cattedra di Logica nell'Università di Oxford, e filosofo dal nome ben noto anche presso di noi in Italia. Oggi, prossimo alla settantina, l'autore di Linguaggio, verità e logica (1934; trad. ital. Milano, Feltrinelli, 1961) ci narra le vicende della sua vita e delle sue opere, con quella semplicità condita di ironia che fa degli inglesi i maestri di un'arte ahimè troppo negletta in Italia, quella dell'autobiografia. E ritornando sulle esperienze lontane della sua giovinezza, ci offre un quadro impareggiabile del fervore intellettuale degli Anni Trenta, e della feconda confluenza di correnti di pensiero da cui nacque appunto quel libriccino che costituisce ancor oggi l'esposizione più chiara e brillante di una dottrina che ha rivoluzionato il pensiero filosofico di questo secolo, il neo-empirismo o positivismo logico, come meglio piaccia chiamarlo. Un racconto, che è anche un esempio di severa e coraggiosa autocritica. A sentir l'autore parlare oggi, lo scritto che gli diede la gloria avrebbe « sacrificato la profondità alla chiarezza ». Come aveva già messo in luce nella seconda edizione del libro, Ayre riconosce che le sue tesi fondamentali andavano svolte più accuratamente: il principio di verificabilità, « l'ascia di cui mi servivo per far giustizia sommaria della metafisica », non gli sembra fosse formulato correttamente; la riduzione delle proposizioni morali a semplici espressioni emotive gli appare oggi « un po' rozza ». Più significativa ancora è la franca ammissione che « tranne pochi dettagli, il pensiero esposto nel libro non era originale », ma era una combinazione delle tesi più radicali del Circolo di Vienna (alla cui attività Ayre partecipò direttamente appena terminati gli studi a Oxford), dell'ambiguo insegnamento di Wittgenstein (da qualche anno stabilmente installato a Cambridge), e dell'autoctona tradizione empiristica britannica, da Hume a Russell e a Moore. Come spiegare tanta severità da parte di un autore nei riguardi di una sua creatura, frutto certamente non di solo entusiasmo giovanile, ma di una non comune capacità di cogliere i nodi essenziali del pensiero contemporaneo, in una parola di una perspicace e brillante intelligenza? Una prima spiegazione ce la offre egli stesso. « Quel libro stabili il mio prestigio come filosofo, e mi rallegro del suo perdurante successo. Ciò che alle volte mi amareggia, è di vedere che esso continua ad esser stimato di più di tutte le altre mie opere successive. Mi piacerebbe poter credere di aver fatto qualche progresso nel corso di quarant'anni. Ma di questo non spetta a me solo giudicare, e, tutto sommato, penso di esser stato più fortunato di avere una certa reputazione grazie a un lavoro giovanile, che di non averne affatto ». Una spiegazione un po' diversa si potrebbe invece forse trarre dal commento di un collega ed amico di Ayre all'apparire del suo secondo libro: che esso rivelava « l'effetto disastroso che gli scrupoli possono avere su di un iconoclasta ». Ma è una spiegazione che non quadra, perché iconoclasta, e iconoclasta impenitente, Ayrc è rimasto tutta la vita, se non nei suoi libri, certo nel suo insegnamento e soprattutto nella straordinaria abilità dialettica, tanto da far dire un giorno al Padre d'Arcy, il superiore dei gesuiti oxoniensi, e brillante polemista anche lui, che, a suo avviso, « Ayre era l'uomo più pericoloso che ci fosse ad Oxford ». Dopo aver letto la sua autobiografia, direi che l'obiettività di cui Ayre fa prova nel narrare le sue non sempre fortunate vicende accademiche (e non soltanto queste!) è, ancora una volta, da ricondursi alla natura della sua intelligenza: un'intelligenza acuta, sensibilissima, sempre in agguato, mai disarmata, un'intelligenza che brilla nella conversazione e nel dibattito, ma che in un certo senso domina e inaridisce chi la possiede. Il giudizio famoso di Wittgenstein — « il guaio con Ayre è che non smette mai di esser intelligente » (clever, in inglese, può significare anche astuto) — è un giudizio perfettamente calzante. E' stata forse proprio questa troppa intelligenza che gli ha procurato diffidenza e ostilità implacabili, ma anche amicizie fedeli e leali. La Oxford dove dopo la guerra e dopo molti anni di attesa Ayre finalmente raggiungeva la cattedra nel 1959, era una Oxford molto diversa da quella degli Anni Trenta. Delle due correnti che si erano diramate in Inghilterra dall'insegnamento di Wittgenstein e dei filosofi di Cambridge, quella rimasta rigorosamente attaccata ai canoni del neo-positivismo, e quella impegnata in analisi linguistiche sempre più raffinate, era la seconda che aveva preso il sopravvento. Ayre non fa mistero della sua scarsa simpatia per quell'orientamento, ma riconosce che le proprie tesi, che prima della guerra erano parse tanto rivoluzionarie, ormai non apparivano nep- pur più meritevoli di esser discusse, perché considerate di dominio comune, o più esattamente perché accolte come premesse obbligate di tutto un nuovo modo di filosofare. Nell'autobiografia questa situazione viene descritta con un'imparzialità che non cede mai né all'irritazione né all'indifferenza, e d'altronde 10 spazio relativamente esiguo che le dispute filosofiche e accademiche occupano nelle trecento fitte pagine del libro indica chiaramente che l'intento dell'autore non è solo di parlar di filosofia, ma di innumerevoli altre cose. « Ho sempre trovato facile di muovermi in mondi diversi »: queste parole con cui si apre il capitolo dedicato alle « amicizie » e ai « viaggi » potrebbero costituire l'epigrafe di tutto intero 11 racconto di Ayre. L'immagine che ne balza fuori è quella di un uomo dagli interessi e dai gusti più svariati, un'immagine che può parer frivola a paragone di quella di molti filosofi di professione. Con arte consumata, Ayre riesce a far rivivere i vari ambienti in cui venne formandosi la sua complessa personalità. Non deve essere stato facile al figlio di genitori immigrati da poco tempo in Inghilterra, e di ascendenza israelita, valicare le sottili, ma tenaci barriere che ancor mezzo secolo addietro dividevano in compartimenti stagni la società inglese. Una borsa di studio a Eton, il più aristocratico collegio d'Inghilterra, fu la sua prima pista di lancio in un mondo in cui snobismo e cultura spesso si alleano, e il successo letterario e accademico molte volte conduce al successo mondano. Sfilano dinanzi ai nostri occhi, illustrati da numerose fotografie, i grandi personaggi dell'epoca, letterati, filosofi, artisti: volta a volta maestri, compagni ed amici. Può sorprendere il lettore italiano di veder narrati i dettagli più intimi di un grande amore fallito; ma forse più ancora di trovar minuziosamente descritti i passatempi preferiti, il calcio, il cinema, la lettura di romanzi polizieschi. In caserma Eppure, a chiusura del libro, si ha l'impressione che nessun particolare è superfluo, e che tutti concorrono a dipingere il quadro delle opinioni, delle speranze e delle delusioni di quel fatale decennio in cui l'Inghilterra si avviava, inconsapevole, alla prova tremenda da cui sarebbe uscita stremata. Volontario in un reggimento di fanteria (ma un reggimento molto « elegante », le Welsh Guardi), Ayre non manca di farci sapere come sopportasse filosoficamente i rigori della vita di caserma: rigori che tuttavia non durarono a lungo se il nostro filosofo venne dopo pochi mesi chiamato a far parte di quell'organizzazione che non poco contribuì alla vittoria degli Alleati, l'Intelligence: un nome che suona oggi quasi simbolico, dacché sappiamo che nei suoi ranghi militarono i più fini e astuti cervelli dell'intero Regno Unito. A. Passerin d'Entrèves