Giorno per giorno a Teheran di Igor Man

Giorno per giorno a Teheran LA VITA NELLA MEGALOPOLI DEI GRATTACIELI E DEI DISEREDATI Giorno per giorno a Teheran Traffico caotico e invasione dei «senzascarpe» che sciorinano sui marciapiedi la loro mercanzia - I contadini ora attendono la riforma agraria, gli operai la politica sindacale, le masse inurbate la casa DAL NOSTRO INVIATO TEHERAN — Vivere a Teheran comporta l'alienazione, una delle componenti più amare della cosiddetta -teheranite», sindrome affatto inedita. Nel 1920 Teheran contava 200 mila abitanti, era una minuscola città a misura d'uomo dove un'indigensa dignitosa conviveva con un benessere non sfacciato. La commistione fra ricchi e poveri, simile a quella verificata dall'Abboud nella Roma papalina, aveva come risultato una -socialità» capace di decantare frustrazioni e megalomanie. Mohammed Reza ha raccontato che, quand'era bambino, Teheran era così piccola che, al tramonto, una ron¬ da chiudeva tutte le porte delle mura. Nel 1973, con la guerra del Kippur, i Paesi petroliferi arabi prima minacciano di chiudere il rubinetto del petrolio, poi quadruplicano il prezzo del greggio. E'il momento magico dell'Iran: da un giorno all'altro il Paese, secondo esportatore mondiale di petrolio, diventa ricchissimo. 'Dai sei miliardi di dollari del '63, le royalties balzano a 15. 18, 20 fino a raggiungere nel 1977 i 24 miliardi. Esaltato dal boom, lo Scià dichiara che, alla fine del secolo, l'Iran sarà la quinta potenza mondiale; vara progetti faraonici, spende 60 miliardi di lire per la festa, cafona, di Persepoli, compra un quarto delle azioni della Krupp, interviene per salvare la Pan Am e la Twa, si proietta in una corsa dissennata agli armamenti più sofisticati. Nel 1975 l'americano Istituto Hudson cerca di raffreddare gli entusiasmi con un rapporto in cui si legge: «La prospettiva che l'Irani diventi una potenza mondiale entro la fine del secolo è assurda. Ci vorranno almeno vent'anni solo per gettare le basi dell'industria leggera. Se le grandi aspettative suscitate dallo Scià dovessero andar deluse, potrebbe sopravvenire una grave crisi politica». La crisi politica c'è stata — è storia di oggi —, ma, nel frattempo, fra il '75 e il '78, l'industrializzazione selvaggia, il boom edilizio frutto di una urbanistica delirante, compagna della speculazione più vergognosa, hanno trasformato Teheran in una megalopoli sinistra. La folle attività edilizia, la costruzione di opere del regime quali superstrade e grattacieli in marmo e vetro, supermarket e stadi olimpionici, non riescono a tenere il ritmo dell'inurbamento: ognianno mezzo milione di persone e centomila automobili congestionano la capitale. L'acqua e l'elettricità mancano spesso in interi quartieri, le centrali telefoniche impazziscono, gli affitti salgono alle stelle. Il gap tra il tenore di vita popolare e quello dei/'establishment politico-economico diventa terrificante: il 20 per cento dei cittadini ricchi accaparra il 60 per cento del reddito nazionale, mentre il 20 per cento più povero si divide U5per cento. L'arrivo di Khomeini, dopo quindici anni di esilio, accende le speranze dei «senzascarpe*. esaltati dalla cacciata dello Scià, dalla fuga degli -avvoltoi*. Ma la rivoluzione islamica blocca quel minimo di traffici terziari su cui campava buona parte della popolazione meno favorita, non risolve il problema della casa poiché la Costituzione teocratica rispetta la proprietà privata, impedendo di traformare i fa-, lansteri, compiuti o no, in alloggi per i diseredati. Non ancora disintossicati dalle regole inflessibili d'un Paese a rendita esclusivamente esterna, i cinque milioni di cittadini che affollano Teheran girano tutto il giorno come mosche impazzite: i più in macchina, intasando le strade, gli altri a piedi o in bicicletta. Al vortice del traffico che genera la più alta polluzione del mondo, fa riscontro l'invasione massiccia dei mostazafin fi senzascarpe): fra grattacieli e strade sconnesse, ai cui margini scorrono fetidi canali d'acqua, il miserabile che vuol sopravvivere sciorina sui marciapiedi luridi i simboli deputati del consumismo imposto dalla megalomania criminale dello Scià: oggetti di plastica, profumi francesi, reggipetti tedeschi, stoffette made in Hong Kong, orologi giapponesi al quarzo, lamette Philips, scarpe fatte a Belluno. Ma gli acquirenti sono scarsi — l'inflazione supera il 50 per cento —, cosi t rivendicali accendono modesti falò davanti alle loro bancarelle, consumano pasti frugali a base di barbabietole caramellate. Il contrasto fra il vorticare delle automobili e la staticità rabbiosa dei mercanti improvvisati è emblematico: stravolto da una rivoluzione più velleitaria che efficiente, il Paese affonda, giorno dopo giorno, in un equivoco culturale tra i più pericolosi. Per/ino il grande Grande Bazar — polmone commerciale della Teheran autoctona — allinea accanto ai bugigattoli saccheggiati di tappeti i negozi forniti di gadget giapponesi. E', il Grande Bazar, l'espressione più tangibile del sovrapporsi, deWin1crociarsi di due mondi diversi, in una lacerante violenza all'identità culturale d'un popolo che fu fiero e genuino prima che su di lui si abbattesse la mannaia dell'occidentalizzazione a tappe forzate voluta da Mohammed Reza. Una occidentalizzazione che le esortazioni mistiche all'austerità di Khomeini non riescono a debellare. Dappertutto si incontrano donne vestite all'occidentale, non solo sema chador ma truccate con polemica violenza, e dai negozi, disertati dai clienti, si levano le canzoni impure dei più rinomati cantanti italiani, francesi e americani. L'alcol è stato bandito dalla mensa degli iraniani, in compenso l'oppio —non proibito dal Corano — è diventato l'ultimo rifugio della gente. Non c'è famiglia che, a sera, dopo un piatto di riso e poltiglia di pollo, non si abbandoni alla liberazione drogata dell'oppio. Perfino i bambini, privi di chicche, possono far due tirate dalla pipa di papà o della nonna. La stampa e la radio sono controllate ma escono anche giornali che osano dire la verità, lavando i panni sporchi in famiglia, sicché l'iraniano medio, l'iraniano diseredato (a dispetto d'un tasso d'analfabetismo del 70 per cento) raccolgono ogni giorno i dati drammatici dell'apparente fallimento d'una rivoluzione che, in nome dello sciismo, avrebbe dovuto portare all'èruminazione delle discriminazioni sociali, a un recupero delle peculiarità culturali di una nazione che non è mai stata colonizzata, almeno nel suo passato remoto. -Cosi a Teheran si vive al la giornata, in attesa di tempi migliori. I contadini aspettano la riforma agraria, gli operai che i comitati islamici scoprano la politica sindacale. Le masse inurbate aspettano la casa, la lana e il pane d'orzo che Khomeini propone come alternativa quello, impuro, fatto con grano che viene, o che veniva, dall'America. La sinistra, composita e divisa in clans, aspetta che la rivoluzione si compia. Gli ayatollah aspettano che la rivoluzione di venti regime, dopo il passaggio forzato della nuova Costituzione teocratica*. Il venerdì (la domenica musulmana) i cittadini di Teheran si riversano nell'immenso *paradiso di Zhora*. il più grande cimitero dell'A sia Centrale. Fanno picnic sulle tombe, tenendo la radiolina accesa per conoscere 'i risultati delle corse dei ca valli, per captare l'ennesimo messaggio di Khomeini. bambini giocano a pallone, calpestando, innocenti, le lapidi che allagano il riquadro 17, là dove sono sepolte le in finite migliaia di martiri della rivoluzione. Sopra lim menso cimitero, il cielo sarebbe pulito ma ci pensa la grande raffineria a gonfiarlo -.di smog. Come si vive a Teheran? Nei grandi alberghi, ora diretti dai comitati islamici, bivaccano i giornalisti e gli ultimi ricchi rimasti, accedendo a ristoranti — sema più musica e vini e l'impuro caviale —, dove la mediocrità del cibo è inversamente proporzionale ai prezzi da capogiro: 25 mila lire per una bistecca orribile di montone, una -Coca-Cola* e un caffè turco. Soltanto nell'estrema periferia, ammorbata dalle fogne a cielo aperto, si ricompone un mondo più omogeneo. Qui si batte ancora il rame e si cuoce il metallo negli antichi forni di cotto. Donne avvolte nello chador, che le rende simili a trepide rondini terrestri, offrono focacce calde, gli uomini in ciabatte il tè, e i bambini pupazzetti fabbricati con spaghi immersi nello sterco e lasciati essiccare al sole. Ed è qui, nei cubicoli dei -dannati della terra* teorizzati da Fanon, che il culto di Khomeini, l'imam giusto e infallibile, resiste. Ma fino a quando? Igor Man Nel Grande Bazar di Teheran si mescolano tradizione e consumismo, i caratteristici tappeti e l'elettronica giapponese