La pittura nasceva a suon di musica di Gigi Caorsi

La pittura nasceva a suon di musica RITRATTO DI FRANCESCO MENZIO La pittura nasceva a suon di musica Tutti i quadri di Francesco Menzio sono stati dipinti a suon di musica o con l'accompagnamento di canzoni da lui stesso cantate. In questo, forse, consiste il segreto della loro armoniosa musicalità. Ma può anche darsi che non c'entri per niente. Comunque, prima di mettersi a dipingere. Francesco Menzio controllava con attenzione che ci fosse tutto l'occorrente: lo sgabellotto per la tavolozza, la tavolozza sullo sgabellotto. i colori sulla tavolozza, i pennelli, la spatola, la radiolona portatile sintonizzata sul Terzo Programma. Nell'eventualità che le musiche della radio non s'intonassero con quanto aveva in mente di dipingere, si schiariva la voce. Nel lessico familiare dei Menzio. la radiolona era indicata come «l'aragosta»: chi ha preso l'aragosta di papà/ dov'è andata a finire l'aragosta del nonno/ bisogna di nuovo cambiare le pile all'aragosta. La radio portatile era stata chiamata aragosta per via delle tre o quattro lunghissime antenne sempre in movimento che. effettivamente, la rendevano simile a un grosso crostaceo con le sue caratteristiche appendici sensoriali. Dopo essersi accertato che tutto fosse a posto. Menzio si calava sulla fronte la visiera verde con cui appare in tanti autoritratti. Questa visiera che lo faceva assomigliare a uno di quegli impiegati del telegrafo che comparivano nei film americani di una volta, la usava sia per proteggere la vista dalla luce eccessiva, sia per non vedere altro che quello che gli stava davanti, cioè il quadro al quale lavorava: per lui era un po' come i paraocchi per i cavalli. Accendeva la radio confidando che il Terzo Programma trasmettesse Mozart o Bach. Se ciò avveniva non c'era problema, poteva cominciare a lavorare. Se non avveniva si addolorava e. dandogli del tu. rimproverava dolcemente l'apparecchio domandandogli: cosa ti succedey Prima di rassegnarsi, premeva tutti i pulsanti, girava tutte le manopole, orientava le antenne in tutte le direzioni. Nelle sue mani, che erano nervose e fortissime, la radiolona si animava, sembrava inarcarsi, si contorceva proprio come un'aragosta imprigionata e tormentata. Quando s'era finalmente convinto che per quel giorno la radio non gli avrebbe tenuto compagnia, con un'ultima gentile protesta e una sbuffata di delusione, uffa, la lasciava in pace, i pulsanti abbassati, le manopole ferme, le antenne immobili. E si disponeva a surrogarla con l'ugola che. in vista di quest'eventualità, come si diceva, s'era schiarita. Ma prima si metteva a sedere sulla vecchia poltrona, molto amata, ch'era appartenuta a Jesse Boswell, una dei leggendari «Sei» della più bella stagione pittorica di Torino, e guardava con occhio critico il quadro al quale aveva cominciato a lavorare. Si metteva comodo, con la sigaretta accesa e. senza perdere di vista la tela, apriva un fitto discorso con se stesso. Si rimproverava: no. no. che stupido sei stato. Si complimentava: adesso hai capito tutto, quasi tutto. Ogni tanto lo il'luminava un lampo: ma come mi piace, mi piace tanto, mi piace tanto. Non si riferiva più al quadro, ma al suo mestiere di pittore, alla gioia che da questo mestiere ritraeva, limpida, stupefatta e inconsumabile come l'azzurro dei suoi occhi. Finalmente si avvicinava al quadro, l'accarezzava col pollice, lo grattava con l'unghia. Aspirava una boccata di fumo, e cominciava: auprés de ma blonde, qu'il fait bon fait bon. auprés de ma blonde... Poi ammutoliva di botto, come folgorato. Riguardava il quadro, faceva un passo a sinistra verso lo sgabellotto con la tavolozza, e cercava colori, dosava colori, mescolava colori impartendosi consigli, esortandosi ora alla prudenza ora al coraggio. Fatta la scelta, improvviso come aveva smesso, riprendeva: a l'òmbreta d'un bussoli bela bergera s'era 'ndiirmia... e cantava e dipingeva, dipingeva e cantava perdutamente per ore. La meravigliosa «macchina da pittura» che si chiamava Francesco Menzio s'era messa in moto. Macchina, beninteso, per quanto riguarda la sua straordinaria capacità di lavoro, la sua incredibile resistenza alla fatica. Il fatto è che per lui la pittura non era né lavoro né fatica, ma festa e felicità. Malato, stanco, vecchio, curava malattia, stanchezza e vecchiaia con questo infallibile specifico, questo miracoloso toccasana che per lui era la pittura. Quando non ha più potuto dipingere, non ha più potuto vivere. Di che cosa è morto Francesco Menzio? Di mancanza di pittura, anche se questa causa di morte non è compresa nell'elenco di quelle previste dai manuali clinici, e di nient'altro. La «macchina meravigliosa» era al servizio di un cuore straordinariamente umano. La sua pittura è lì che lo dimostra. Ma lo dimostra anche la sua vita. Com'era immensa la resistenza al lavoro, così era senza limiti e senza preclusioni la sua disponibilità al contatto umano, come si dice. Aristocratico di cultura, schivo di temperamento, quasi ,«orso». non cercava rapporti col prossimo: li trovava. Fra i suoi tanti amici, uno dei migliori e più cari era un operaio della Michelin. Danilo. Con Danilo, negli ultimi tempi per ingannare la noia del mortale far niente, batteva in macchina la collina torinese o. d'estate quando si rifugiava nella dilettissima Bossolasco. la Langa: piega per piega, valle per valle. Andavano per Langhe e colline lui. Danilo e Ottavia la «moglie-più-che-moglie» che gli ha vissuto accanto la vita affascinante, esaltante, logorante della moglie del pittore. Lui. Danilo e i figli a turno. Lui. Danilo e. uno alla volta, i nipoti che sono tanti, otto, dieci, una tribù. Per tenerli tranquilli li metteva in posa e li dipingeva cantando apposta per loro la canzoncina che teneva in serbo per quando faceva i ritratti dei bambini, la musica del gatto maragnau maragnau maragnau fruii fruii, la musica del gatto maragnau... I nipoti posavano immobili, seri, beati. Certo, con la pittura e gli affetti, la vita ha dato molto a Francesco Menzio. Ma quanto ha dato lui alla pittura, agli affetti, alla vita? Di più. infinitamente di più. Tutto sommato, quello che rimane in credito è lui. Francesco Menzio. Quanti possono dire altrettanto? Gigi Caorsi «Ritratto di Ann Cheng», ultima opera di Menzio

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