Presto anche i Paesi poveri avranno bisogni energetici

Presto anche i Paesi poveri avranno bisogni energetici Presto anche i Paesi poveri avranno bisogni energetici m Asahi Shimbun (TOKYO) Le luci sfolgoranti della Ginza, il cuore commerciale della grande Tokyo, sono più attenuate da quando è esplosa la crisi del petrolio. Se i giapponesi si lamentano del semichiarore, il turista straniero non sembra quasi accorgersene perché il grande spettacolo della City nipponica continua ad affascinare. E si possono scattare fotografie di notte sensa il flash. Eppure qualcosa sta cambiando anche in Giappone a parte l'inflazione ormai a due cifre, il deficit pauroso provocato dall'alto costo delle importazioni petrolifere, lo yen che continua a perdere quota, le numerose stazioni televisive della capitale che hanno ridotto i programmi dopo la mezzanotte per economizzare il dispendio di energia elettrica. Oggi, quando si parla di Paese sviluppato, si intende una nazione che divora energia, specie petrolio. Su una popolazione mondiale di oltre quattro miliardi di persone, i Paesi industrializzati dell'Occidente rappresentano appena il 16-17per cento de/Zhabitat del nostro pianeta. Tuttavia l'energia da loro consumata ammonta ad oltre il 55 per cento dell'intero consumo internazionale. Così da una parte abbiamo l'economia «che gronda petrolio", dove nessuno è più in grado di vivere un solo giorno se privo dell'«oro nero», e dall'altra la fetta molto consistente delle nazioni emergenti ancora nella fase di economia -che brucia il legno-. Secondo alcuni studiósi inglesi la percentuale di legno combustibile impiegato in. Tanzania, Nepal, Uganda, Madagascar e Kenya si aggirava, fino agli Anni Settanta, fra il 60 e il 90 per cento del consumo totale energetico di quei Paesi. Però non sono tutte rose e fiori: mentre l'uso massificato del petrolio nel mondo industrializzato continua ad inquinare l'aria, anche l'economia da legno fa danni nelle zone del sottosviluppo provocando una vasta ed indiscriminata deforestazione, con conseguente carenza di legname e rialzo dei suoi prezzi. Eppure questi Paesi da economia a legno dovranno passare allo stadio di economia da petrolio nel corso dell'immancabile processo di industralizzazione. Perché persino i Paesi delle regioni tropicali non possono dipendere interamente dall'energia solare visto che il knowhow tecnico, per imbrigliare questo tipo di' fonte energetica risulta ancora inadeguato. Né sarebbe realistico parlare di saltare dal legno al nucleare in un balzo solo. La brutalità della crisi petrolifera, che si è ripetuta due volte nell'ultimo decennio, ha insegnato a tutti i limiti planetari delle risorse petrolifere. I Paesi sviluppati debbono quindi fare i conti con i bisogni_energetici «accelerati- da parte dei Paesi in via di sviluppo. In più essi debbono saper rispondere alla forte domanda energetica necessaria per sostenere una crescita economica «ragionevole». Come raccogliere questa duplice sfida resta il problema crucia-! le della prossima generazione. Gli Anni Ottanta saranno quindi indubbiamente difficili per l'economia mondiale. Fasi ricorrenti dì convulsioni e di cambiamenti, piuttosto che di stabilità, diventeranno forse la norma. E' chiaro che la causa principale dell'instabilità deriverà dallo squilibrio nei pagamenti internazionali se il prezzo del petrolio dovesse continuare ad aumentare. Si ritiene in proposito che il surplus nella bilancia commerciale dei Paesi produttori di petrolio si aggirerà il prossimo anno fra i 35 e i4ù miliardi di dollari. Ciò significa ovviamente allargare il margine deficitario dei Paesi cosiddetti avanzati. Però, nello stesso tempo, la bilancia commerciale dei Paesi emergenti e non produttori di petrolio tenderà anch'essa a salire (38 miliardi di dollari di passivo per il 1979; 42 miliardi per il prossimo anno). Si può quindi affermare che la parte preponderante dell'instabilità dei pagamenti su scala mondiale finirà per cadere fatai mente sulle spalle dei Paesi più poveri e soprattutto su quelli privi di petrolio. La gravità della situazione deriva dal fatto che le tendenze divaricanti che già si mani-1 testano nei tre gruppi di Paesi emergenti tenderanno ad acuirsi. I tre gruppi sono: i Paesi di nuova industrializzazione, ovverossia i Paesi emergenti che stanno entrando nella fase industriale; i Paesi produttori di petrolio beneficiati da un consistente afflusso di valuta pregiata; infine i Paesi non produttori di petro¬ rslasPvtpIlclrcPdagttpalmitsPcgicsszpdddcvpa lio che riescono a malapena a restare a galla. Da questa classificazione semplificata appare evidente l'urgenza di organizzare gli aiuti economici ai Paesi sottosviluppati e senza petrolio. I Paesi ricchi dovrebbero trovarsi in prima fila nell'affrontare il problema. Eppure sappiamo tutti che cosa succede. Inflazione, rallentamento della crescita economica, disoccupazione, difficoltà nella bilancia commerciale, deterioramento finanziario: ecco alcune delle scuse addotte dai Paesi ricchi per svincolarsi dall'obbligo e dall'impegno di assistere i meno fortunati. E' purtroppo tramontato il giorno in cui una nazione poteva stendere la mano ed aiutare un Paese soltanto perché, poteva disporre di denaro o di altre forme di assistenza. Oggi l'obbligo di aiutare collegialmente chi non ha vuol dire imporre sacrifici ai propri cittadini, e non tutti sono disposti a rinunciare a qualcosa. Molto si attende quindi dai Paesi produttori di petrolio, che stanno accumulando ingenti riserve di capitale, per indurli ad aiutare i fratelli che si affacciano all'industrializzazione stornando verso di loro le eccedenze finanziarie rimaste dopo gli adempimenti dei propri programmi di investimento. L'Opec ha deciso in giugno di aggiungere 800 milioni di dollari al fondo di assistenza creato nel 1976 per i Paesi in via di sviluppo. Questo esempio di aiuto al Terzo Mondo va accolto a braccia aperte. Jun Takeda

Persone citate: Kenya, Takeda

Luoghi citati: Giappone, Madagascar, Nepal, Tanzania, Tokyo