Pirandello e il rifiuto delle «parti»

Pirandello e il rifiuto delle «parti» CRITICI A CONFRONTO NEL CONVEGNO SULLO SCRITTORE A CUNEO Pirandello e il rifiuto delle «parti» L'idea di fare un convegno sull'opera di Pirandello a Cuneo già di per sé ha un sapore di sfida, di provocazione. Non riesco a immaginare città meno pirandelliana: cioè, più equilibrata, misurata, aliena dalle avventure intellettuali e dalle finzioni del teatro. Ma proprio per questo l'esperimento dei tre giorni di relazioni, seminari, discussioni, rassegne di film realizzati da opere di Pirandello, ha portato a qualche risultato positivo: soprattutto a quello di poter commisurare le più attuali e significative interpretazioni critiche e sceniche dell'opera di Pirandello in uno spazio cosi estraneo e distante da permettere di ascoltarle e di valutarle come per la prima volta. Il fatto è che l'opera di Pirandello nasconde calcolatamente una trappola nella quale la maggior parte dei critici va regolarmente a cadere, qualunque sia il metodo scelto per l'indagine: il critico è contagiato dalla sottigliezza sofistica e paradossale dello scrittore, e finisce a ragionare proprio come i critici che Pirandello mette in scena in Ciascuno a suo modo o come il protagonista di Uno, nessuno e centomila. Il discorso interpretativo diviene cosi una gara logica con l'autore: e chi perde, naturalmente, è il critico se, come per lo più acca> de, non ha il senso dell'umorismo e dell'ironia dissacratrice, di cui, invece, Pirandello era ampiamente dotato. A Cuneo direi che il tonfo più grave è venuto dai tentativi di approccio psicoanalitico con l'opera di Pirandello La critica psicoanalitica già di per sé ha limiti molto gravi nell'estrema limitatezza degli strumenti esegetici (complesso di Edipo e poco altro davvero). Di fronte a Pirandello i risultati sfiorano l'involontaria comicità, soprattutto perché non accade inai di sentire presa in considerazione l'enorme mediazione di coscienza letteraria che c'è fra biografia e simboli. Non molto meglio davvero andiamo con la sociologia della letteratura, anch'essa alquanto a corto di strumenti e costretta a usare e ripetere all'infinito le categorie della crisi borghese e dell'ideologia piccolo borghese: quando non sia animata da un'autentica passione morale e da un effettivo interesse per il fatto letterario anche al di là delle categorie sociologiche nelle quali pur viene sistemato, come è accaduto nella relazione di Arcangelo Leone de Castris, i risultati sono proprio di un piatto conformismo alla moda. Le cose nuove sono venute da chi ha rimesso in gioco categorie letterarie, generi, modi di accostamento all'opera pirandelliana: ad esempio da Paolo Puppa e, soprattutto, Marziano Guglielminetti, che hanno usato per Pirandello l'idea di rito carnevalesco e di festa di massa che sono forme connesse con il fatto teatrale e che si ritroverebbero in significativi testi pirandelliani, quelli più tardi in particolare, come La favola del figlio com-. biato, La nuova colonia, La sagra del padrone della nave, I giganti della montagna. Credo proprio che questa sia la via per ottenere dall'opera di Pirandello qualche risposta un poco meno usuale di quelle che finora le sono state richieste, al tempo stesso uscendo fuori da ogni rischio di coinvolgimento nella gara di logica paradossale con Pirandello, nella quale si perde in partenza. Pirandello avverte acutamente la corrosione delle «parti» che fino al suo tempo ciascuno ha avuto nella società, nella vita, nella storia. Paradossalmente, la società richiede funzioni e comportamenti ben definiti e determi¬ nati che, però, sempre meno si riesce a tenere (o non ci si, crede più). Anche l'arte non ha più spazio o ne ha sempre meno di fronte alla mutevolezza della vita ovvero alle esigenze della produzione e dell'economia, come appare dai Set personaggi, da / giganti della montagna, da / quaderni di Serafino Gubbio operatore, ecc. La salvezza (se di salvezza può parlarsi) è nel piacere ironico e paradossale di riuscire a sfruttare fino in fondo, fino all'esplosione dello scandalo. J la contraddizione fra la «parte» nella società e nella vita e le convenzioni morali e sociali, recitando la «parte» con perfetta coscienza dell'assurdità di essa, della follia che è proprio il dirla e svolgerla fino alle ultime conseguenze. E' quello che fa Enrico IV, che. anche dopo essere guarito dalla pazzia in seguito all'incidente patito durante la cavalcata carnevalesca, continua a fare la parte del pazzo, vestito da imperatore, in mezzo alla sua falsa corte: ma è anche quanto esigono i protagonisti de La patente o de // berretto a sonagli. Oppure la salvezza è nelle dimissioni da ogni «parte», nella rinuncia a essere qualcuno nella società. E' la scelta anarchica, quella che è particolarmente ricca di fascino ironico per Pirandello: Mattia Pascal, che può godere della sua posizione di «morto» che non ha più parte da recitare, quando accetti di aver perso davvero ogni identità, ma, soprattutto Cotrone, uno dei personaggi de I gigari ti della montagna, che ha dato, come egli stesso dice, le dimissioni dalla società e anche dalla dignità, dal decoro, per scegliere il sogno, l'invenzione libera e gratuita, l'apparenza contro la concretezza e la produzione e l'economicità,, la visionarietà. Pirandello muore lasciando incompiuti / gigari ti: e l'estremo messaggio, che, del resto, unche gli altri «miti» pirandelliani già hanno presentato, è allora proprio questo: l'estrema sfida all'alienazione dalla vita e dalla «parte» sociale attraverso la gratuità dell'invenzione e del sogno. G. Bàrberi Squarotti

Luoghi citati: Cuneo, Gubbio