L'Angelo della poesia nelle notti di Proust di Giovanni Bogliolo

L'Angelo della poesia nelle notti di Proust L'Angelo della poesia nelle notti di Proust Giovanni Macchia, «L'angelo della notte», ed. Rizzoli? pag. 245. lire 8000. La finezza e l'originalità della chiave di lettura di Proust scelta da Giovanni Macchia erano già apparse in tutta la loro forza innovatrice nel saggio L'allegoria del Diluvio che, esattamente un anno fa, introduceva alla riedizione einaudiana della Recherete: in esso, il capolavoro proustiano veniva presentato come il frutto di una quotidiana convivenza con la malattia e veniva illustrato il duplice miracoloso paradosso per cui un essere debilitato, frivolo e pigro riusciva a costruire, pietra su pietra, una straordinaria cattedrale di parole e la più grande ricostruzione della memoria poteva sorgere dalle paludi dell'oblio. Per Proust la malattia era stata non soltanto l'alvo accogliente e propizio che lo isolava dal mondo, il filtro attraverso il quale aveva imparato a contemplare se stesso e la realtà, ma anche e soprattutto uno strumento di conoscenza. Scoprire la natura morbosa della sua volontà e della sua memoria era stato il passo decisivo non per guarirle, ma per educarle alla pazienza del lavoro e del ricordo, per utilizzarle in tutta la loro defettibilità. Ora che quel primitivo nucleo interpretativo si presenta arricchito e sviluppato in un denso volume, ci si accorge che quella prospettiva di lettura segnava una data decisiva nella conoscenza dell'opera di Proust. Non solo la Recherche — che qui viene ulteriormente studiata nell'elaborazione della struttura e nella laboriosa definizione dello statuto dell'io del narratore — ma anche le opere giovanili, l'idolatria per Ruskin, i falliti tentativi di romanzo, le pagi' ne della corrispondenza, tutto il cammino insomma che, tra tentennamenti e fobie, esaltazioni e smarrimenti, porta alla concezione e alla redazione del capolavoro, trova una nuova e più coerente decifrazione se visto dallo stesso coté notturno—della malattia, del vizio, dell'insonnia — in cui Proust l'ha praticato. Macchia è impareggiabile maestro nel sollecitare queste zone d'ombra, questi recessi vertiginosi della coscienza di' cui soltanto più un brivido affiora nella compiuta perfezione dell'opera. Attraverso una lettura simpatetica, una frequentazione paziente e solidale, arriva a realizzare una sorta di identificazione profonda ma sempre vigile e lucilia cohTunlverso dello scrittore, a vivere dall'interno non soltanto il piacere del testo ma anche le sue ragioni costitutive, quel momento in cui dalla crisalide dell'io futile e périssable dell'esistenza sboccia la farfalla (o l'Angelo) della poesia. In questo grado ulteriore di approfondimento critico, l'opera viene come letta in trasparenza non per scoprire al di là di essa le inevitabili miserie dell'uomo che l'ha generata, ma per ricostruire in piena e documentata coscienza attraverso quali gradazioni e passaggi, attraverso quale miracoloso equilibrio di tensioni contrastanti quella modesta somma di esperienze, pensieri e sensazioni individuali abbia trovato il supremo assetto dell'arte. Per vie diverse, anche Macchia giunge dunque a praticare una critica di identificazione a livello della coscienza, a far combaciare fin nel minimi dettagli la sua coscienza di lettore con quella dello scrittore per carpirne il Cogito profondo; diversamente dai critici «ginevrini» che questa strategia di lettura hanno teorizzato, non disdegna però gli apporti del metodo «storico», dell'indagine biografica, delle testimonianze dirette e indirette, che anzi sollecita con particolare tenacia alla ricerca di una visione totalizzante che sia anche il compiuto mosaico di tutti i dettagli. Con Proust, che ha sentito in modo ossessivo il dissidio tra la vita e l'opera e ha trovato parole insolitamente feroci per negare tra loro ogni facile analogia, questa connivenza è possibile solo a prezzo di una consumata sensibilità e di un'assoluta discrezione, adattando il percorso circolare dall'universale dell'opera al particolare dell'esistenza, a tutte le cautele, le digressioni, le sinuosità della sua natura. E' un esercizio d'amore che non premia soltanto con la consapevolezza della raggiunta comprensione: alla fine di questa profonda mimesi — non dissimile da quella che autorizzava Proust a riprodurre nei pastiches le movenze degli scrittori che più amava — il critico è in grado di parlare in nome dello scrittore, di rivelare nella sua opera la resistenza di echi appena percettibili (quello di Dostoevskij, per esempio), di motivare la modesta rilevanza di presenze tuttavia incombenti (Vermeer), di scoprire linee di convergenza imprevedibili e rivelatrici (Pascal), di penetrare, testimone riverente e silenzioso, nei luoghi più difesi dell'intimità biografica, la stanza di Versailles in cui si compi la prova generale della finale clausura dello scrittore, la stanza di rue Hamelln dove un «angelo malefico* venne a portargli la morte. Giovanni Bogliolo

Luoghi citati: Versailles