Le pene dell'esilio da Roma al Mar Nero di Carlo Carena

Le pene dell'esilio da Roma al Mar Nero L'ultimo viaggio di Ovidio Le pene dell'esilio da Roma al Mar Nero Vintila Horia: «Dio è nato in esilio», ed. Pògola, pag. 273. lire 10.000. Una gaffe, un motto di spirito sbagliato o un'alcova principesca violata, e il poeta Publio Ovidio Nasone, idolo della Roma bene dei tempi di Augusto, si trovò sbalzato dalle spiaggie dell'Isola d'Elba all'esilio in Romania. Solo il tempo di fare una valigetta e poi via verso Brindisi fra le lacrime della servitù e gli svenimenti della moglie. Una vecchia barca lo portava, nell'inverno dell'8 dopo Cristo, a Tomi, sulla costa del Mar Nero, dove il poeta doveva rimanere per quasi dieci anni a gemere, attorniato da popolazioni semibarbare, assediato dalle incursioni delle orde vicine, come in un villaggio del Far West. Il suo ricordo rimase a lungo e rimane da quelle parti come il primo collegamento con la civiltà che ha dato anche alla Romania il suo timbro. Ancora di recente un romeno francesizzato, diplomatico, perseguitato politico prima e dopo la guerra, amico di Papini, Vintila Horia, scrive un romanzo a cui è toccato il premio Goncourt (poi restituito dal vincitore per mene politiche) sul soggiorno di Ovidio a Tomi. Cosà, in realtà, passò per la mente del poeta in quegli anni è storicamente consegnato solo alle raccolte di versi che continuò a stendere imperterrito, descrivendo {oscamente i luoghi, importunando tutti i possibili intercessori, infilando lamenti su lamenti. Da essi non si ha l'impressione, in lui, di un ripensamento esistenziale, di una disperazione suprema. Horia, in questo finto diario ovidiano, fa invece dell'autore raggiunto dalla sventura uno degli immaginari pagani toccati dalla Rivelazione di cui la storia della letteratura è piena, dall'epistolario spurio tra San Paolo e Seneca sino ai kolossal di Hollywood. Ateo, disdegnoso, il cantore delle metamorfosi vive a Tomi insultando un suo cagnetto di nome Augusto, nella stessa desolazione anche ambientale dei suoi Tristia e delle sue Epistulae. Ma pian piano, nei contatti con gli umili, con i fedeli di una religione mono teistica locale, con un medico greco stato in Palestina, testimone involontario di una nascita mistica a Betlemme, entra anch'egli dentro quella vasta atmosfera di fede e di speranza nell'avvento di un Dio che darà agli uomini una nuova legge, spazzando via tutte le saggezze e le dottrine precedenti. Un mondo mistico avvolge nel libro il suo eroe, un senso d'instabilità continua, come quella del villaggio, del mare, delle foreste coperte perennemente di brume; un'impressione di sfinimento d'una ci viltà ormai sostenuta da menzogne accettate più. che dalla solidità del certo, e il serpeg giare sotterraneo della verità che non può non sopraggiungere quando è ora a comunicare forza, a dare un senso alla vita, e che intanto sostiene una povera contadina, tocca una cortigiana, rende caritatevole un carrettiere. Ovidio capisce, attraverso quella che Daniel Rops nella breve introduzione chiama la «terribile potenza di purificazione dell'esilio», che la palingenesi nasce dal dolore e che la verità alberga più nella capanna di Filemone e Bauci che nella reggia dell'imperatore. Di fronte alla storia di questo Messia ebraico, nato egli pure in esilio, «tutto il resto diviene di una incredibile piccolezza. Una delle mie ore di oggi prende l'aspetto dell'infinito a paragone della mia vita passata». Ma il passaggio non è facile. Il protagonista stenta a capire, spera più che credere. Ma anche questo, sembra dire Horia, basta, se non a redimere, a salvare. Scrìtto alla fine degli Anni Cinquanta da un esule alla rovescia, il libro porta, con la bellezza di molte pagine e il minimo del falsetto proprio di tutti i romanzi storici, il segno anche di un'esperienza personale e contemporanea di non debole penetrazione verso un mondo posto in condizioni non troppo dissimili da quello che prostrò l'antico poeta. Carlo Carena

Luoghi citati: Betlemme, Brindisi, Hollywood, Palestina, Roma, Romania, San Paolo