Asor Rosa: la fine delle classi di Lietta Tornabuoni

Asor Rosa: la fine delle classi INTERVISTA CON IL SAGGISTA E POLITICO SULL'ITALIA SOMMERSA Asor Rosa: la fine delle classi «Prevalgono le categorie, nella nuova società frammentata dal neocorporativismo» - Il lavoro, perduti i valori morali, politici e d'unità di classe, rappresenta un'esigenza puramente economica - Il sindacato visto come strumento, i partiti devono trasformarsi, il ceto politico smarrito - «Se i comunisti negano il problema, negano la possibilità di risolverlo» ROMA — Adesso il ministro dell'Istruzione scopre che esiste pure una -scuola sommersa», sei mesi fa si citava la 'politica sommersa» per spiegare i successi elettorali radicali o socialdemocratici. Il linguaggio corrente estende il concetto di 'economia sommersa», inaugurato da un rapporto del Censis per definire il nuovo intreccio di piccole imprese, lavoro nero, lavoro indipendente, lavori precari, redditi familiari composti e aumenti di certi consumi, che secondo l'analisi del Censis consente all'Italia, con la propria vitalità fuorilegge, di resistere nella crisi economica nazionale e intemazionale. Finiti i discorsi sulla società massificata, adesso segmento, spezzone, frammento, frazione, molecolare sono i nuovi termini usati per descrivere questa «Italia sommersa»: tutta mutata e ancora misteriosa, contrapposta schizofrenicamente al Paese ufficiale a formare un'immagine italiana contraddittoria: svogliata e la¬ boriosa, assistita e individualista, classista e corporativa. E' davvero cosi, oppure r ..Italia sommersa» è soltanto un'espressione utile per agghindare il disordine, la violazione delle leggi sul lavoro e le evasioni fiscali, è un nuovo travestimento verbale per il vecchio corporativismo storico italiano? E se davvero la società è tanto disorganica, gruppuscolare, particolaristica, che fine fanno le classi sociali, le confederazioni sindacali che s'ispirano a interessi generali, i partiti marxisti, le sintesi politiche? Su questi temi interroghiamo Alberto Asor Rosa, saggista e docente universitario a Roma, deputato comunista e ideologo della sinistra del pei, studioso dell'operaismo e teorizzatore delle mutazioni italiane già nel 1977 con il saggio Le due società. La società è davvero schizofrenica? L'Italia sommersa davvero esiste ed è vitale, oppure rappresenta il puntello illegale dell'altra Italia? — Esiste, oggettivamente. Dal 1968, sono venuti meno i vecchi meccanismi di programmazione sociale. Nuovi meccanismi sono mancati: c'è una disgregazione del tessuto produttivo e sociale che tende a ricomporsi spontaneamente a fini di sopravvivenza. Nella crisi dell'industria di Stato e nelle difficoltà di colossi industriali come la Fiat a mantenere i tradizionali livelli di produttività e di profitto, l'Italia ha conosciuto un sistema di resistenza economica basato sulle piccole e piccolissime imprese, lo sfruttamento del lavoro di donne e bambini, la diffusione del lavoro nero e dei lavori indipendenti e precari. Con i conseguenti fenomeni sociali: accanto alle suddivisioni identificate dal pensiero marxista e dalla sociologia — classe operaia, borghesìa, ceto medio, sottoproletariato — vi è stata la proliferazione di microgruppi e sottogruppi di origine sociale differenziata che alla fine di questo decennio offrono un panorama della società assai diverso dal passato. Il panorama d'una società di massa formata da componenti spontanee, mossa da spinte anarchiche? — Quando manca un progetto complessivo che risulti convincente, almeno nelle zone metropolitane avanzate è proprio così. La massificazione, tipica del decennio precedente, non regge più: è sostituita o contraddetta da atteggiamenti di gruppo, da forme culturali differenziate. Regge ancora la sua teoria delle «due società», degli italiani divìsi tra «garantiti» e «non garantiti»? — Le 'due società» non era una formula teorica da prendere come espressione di un'analisi scientifica: era un modo vistoso di sottoporre all'attenzione un fenomeno allora del tutto trascurato. Detto questo, l'esistenza d'una realtà disgregata, frammentaria e vitale mi sembra confermata; e mi sembra innegabile che vi sia un modo di organizzarsi della società che tende a mettere fuori, ad espellere ed emarginare, certi gruppi specialmente giovanili. Il moltiplicarsi di altri gruppi e sottogruppi non inseriti in un progetto sociale e politico produce invece quello che si definisce volgarmente 'neocorporativismo italiano»: ogni gruppo agisce indipendentemente o contro gli interessi generali, e anche indipendentemente o contro gli interessi della propria classe di appartenenza. La tradizionale divisione in classi della società non è più valida? — Diciamo che'in questo panorama le categorie sociali prevalgono, forse provvisoriamente, sulle classi sociali: il concetto di impiegato statale prevale sul concetto di ceto medio, il concetto di studente prevale sui concetti delle classi sociali d'appartenenza dei singoli studenti. Vi sono poi vasti strati sociali difficilmente incasellabili all'interno d'una singola categoria: il precariato, ad esempio. Per tutti quelli che svolgono lavoro precario negli impieghi statali, dalle poste alla scuola alle ferrovie, come nell'attività privata delle miriadi di occupazioni saltuarie o a domicilio, la connotazione relativa alla precarietà è prevalente su quella di classe. Vi sono infine spaccature verticali all'interno della stessa categoria, o ricomposizioni orizzontali tra classi diverse. Sono 'lavoratori produttivi» tanto l'operaio superspecializzato dell'Oliveta elettronica, quanto l'edile della periferia romana: ma hanno forme di vita, di cultura e di rapporto con la società molto diversificate. Sono 'Studenti» sia il figlio del professionista che il figlio del proletario: ma il costume e il linguaggio dello studentato li rendono analoghi nei comportamenti, e possono omogeneizzare anche i giovani operai. L'effetto culturale più vistoso della frammentazione della società è la crescente proliferazione dei linguaggi, la difficoltà a riportarli a un esperanto unificante. E' cambiato dunque, secondo lei, il rapporto tra individuo e classe: suddivisi in gruppi, i lavoratori non hanno più interessi comuni. E' mutato anche il rapporto tra individuo e lavoro? — Il lavoro non basta più a stabilire unità di intenti. Da una parte c'è il lavoro legato a forme organizzate; dall'altra parte c'è il non-lavoro, oppure un lavoro non legato ad alcun luogo fisico collettivo, ad alcuna continuità, ad alcuna colleganza. I rapporti di parentela tra lavoratori organizzati e lavoratori sommersi si sono obiettivamente allentati Anche nella fabbrica, i giovani operai sono molto diversi dagli operai adulti, e viene a mancare un certo cemento coesivo rappresentato dal costume del lavoro organizzato, da quella disciplina che era il prodotto di costrizioni, ma che con segno rovesciato era anche la disciplina del militante rivoluzionario. Il lavoro, perduti i valori morali o politici, le connotazioni di unità di classe, rappresenta oggi un'esigenza puramente economica di sopravvivenza. Le sembra un vantaggio o uno svantaggio? — La laicizzazione del lavoro non mi sembra un elemento negativo. Sulla vecchia etica del lavoro è stato costruito il capitalismo; e sono state costruite vite disciplinate da una forte carica morale magari anche nei confronti del lavoro politico o rivoluzionario, ma entro limiti di costrizione che non è negativo veder superati. Il problema è semmai come incanalare le.spinte che nascono dal nuovo rapporto tra individuo e lavoro, tra individuo e classe. E il rapporto con i partiti, con il sindacato? — Quest'Italia sommersa ha senza dubbio un rapporto profondamente 'diverso che nel passato con le forme tradizionali del potere, della aggregazione delle classi in partiti, del sindacato. Le classi erano legate alle proprie rappresentanze politiche e sindacali da interessi economici e sociali ben chiari, in una società compatta e nettamente suddivisa. Oggi i gruppi e sottogruppi intendono il sindacato, più che come organo di partecipazione collettiva, come strumento, per i servizi che può rendere e le garanzie che può offrire. Quanto ai partiti, più che di negazione della politica da parte di questa realtà sommersa parlerei della necessità che la politica trasformi profondamente se stessa e l'idea di società cui continua ad ispirarsi. Alla nuova realtà della società frammentata, come reagisce oggi il sistema politico? — Le risposte consapevoli e ideologiche mi paiono due. Prima reazione: anche nella sinistra, nel movimento operaio, la spinta verso il frammentario e l'inorganico viene avvertita come fenomeno di crisi totalmente negativo. Seconda reazione: specie nel mondo cattolico, si prende atto delle grandi dimensioni del fenomeno; lo si contrappone alle categorie dell'organizzazione, della razionalità e della politica, relegando le istituzioni a un ruolo di semplice fornitura di servizi e di mediazione tra i gruppi; si rispolvera tutto il corporativismo cattolico, con il suo odio per la politica e per la grande fabbrica, con la sua esaltazione della società civile contro la società politica. Tutte e due sono reazioni sbagliate, nostalgiche di qualcosa che non c'è più. Questi fenomeni non sono infatti una reviviscenza della vecchia società civile: sono il prodotto di una certa fase dello sviluppo capitalistico in quanto tale, che impone di prendere in considerazione questa pluralità di soggetti d'una possibile trasformazione della società e dello Stato. Se la società è frammentata, se i partiti non rappresen-: tano più precise classi sociali,' se gli interessi dei vari gruppi sono differenti e tra loro contrastanti, come possono il sindacato o un partito, per esempio il pei. stabilire una linea o elaborare un progetto politico-sociale valido per tutti? — L'abissale differenza di linguaggio tra questi fenomeni e il ceto politico mette in discussione la cultura del ceto politico, non le possibilità di trasformazione che per essere efficaci debbono tornare ad essere generali. Come si possa risolvere il problema di fare una politica apprezzata' e condivisa da questi nuovi soggetti, non lo so. So che, intanto, bisognerebbe avere consapevolezza del fenomeno: e non considerarlo irrazionale, inferiore, una difformità della storia. Se neghi il problema, ti neghi la possibilità di risolverlo. Occorre invece riconoscere razionalità e identità alle forme diverse, imponendosi innanzi tutto di rinnovare se stessi per ca- p<rte Lietta Tornabuoni

Persone citate: Alberto Asor Rosa, Asor Rosa

Luoghi citati: Italia, Roma