Kennedy: vizi privati e pubbliche virtù

Kennedy: vizi privati e pubbliche virtù IL «CLAN» RINNOVA LA SUA SFIDA Kennedy: vizi privati e pubbliche virtù NEW YORK — Due settimane fa, per l'annuncio ufficiale della propria candidatura alla presidenza, Edward Kennedy raccolse nella storica Faneuil Hall di Boston, la culla della ri .iluzione e della democrazia americana, tutti i superstiti del «clan». Ai cinquemila uomini politici, sostenitori, poliziotti e giornalisti, che si assiepavano nell'antico edificio, straripando sulla piazza e le vie circostanti, parve di essere tornati indietro di venti anni, alla campagna elettorale del fratello John. In prima fila, sedevano la moglie Joan, la formidabile madre del senatore, la quasi nonagenaria Rose; le cognate Jacqueline ed Ethel, la vedova di Robert; i cognati Sergent Shriver e Stephen Smith. Più oltre, si scorgevano i quindici figli dei tre fratelli Kennedy. E più oltre ancora, gli intellettuali delle «nuove frontiere», lo storico Schlesinger, l'economista Galbraith, l'ex ministro della Difesa McNamara, l'ex segretario di Stato Rusk. Ha scritto il Boston Globe che quel giorno alla Faneuil Hall miracolosamente si riunì «la corte del mitico Regno di Camelot». Per i cinquemila, si rinnovò il sogno che negli Anni Sessanta aveva infiammato il cuore e la mente degli Stati Uniti. Risorgevano con Edward Kennedy le speranze e i progetti inebrianti di riforma infranti dal Vietnam e dal Watergate, convertevano nella sua figura quelle di John e Robert, il presidente e il ministro della Giustizia assassinati, e il suo messaggio riproponeva istanze e valori fondamentali della cultura americana, appena smarriti nell'egoismo e nella permissività. Fu un avvìo trionfale, in cui il «clan» sembrò vedere nuovamente nel proprio destino la Casa Bianca e il potere, con tutti i suoi privilegi e responsabilità. Oggi, quel magico momento della Faneuil Hall è oggetto di astiose polemiche politiche. Dopo due sole settimane di campagna elettorale, come e ancora più che per John Kennedy nel '59-60, gli Stati Uniti si sono divisi in due, prò e contro il «clan». Sono discussi non solo i programmi del senatore, ma anche la tragica morte di una sua compagna, Mary Jo Kopechne, a Chappaquiddick dieci anni fa; i suoi presunti amori; l'alcolismo, ora debellato, della moglie Joan; la loro separazione di fatto; la tossicomania di uno dei figli, l'autoritarismo della madre Rose; le «diverse bizzarrie» di Jacqueline ed Ethel, «vedove imperiali» consce della propria appartenenza alla più potente dinastia americana; le disavventure dei cognati; i meriti e i demeriti dell'intellighentsia che li ha circondati e li circonda. E' un comportamento che conforta l'opinione dello scrittore Theodore White, secondo cui nei Kennedy gli Stati Uniti identificano «una famiglia reale di cui sentono irrazionalmente la mancanza». Essi non giudicano «Ted» sulla base dei fatti ma delle passioni, e valutano non il candidato ma il simbolo. Se Edward Kennedy fosse sconfitto dal presidente Carter al congresso del partito democratico l'estate prossima, o dai repubblicani alle urne nell'80, la colpa sarebbe dell'incapacità degli americani di distinguerlo dal «clan». In quasi un ventennio, egli ha accumulato al Senato invidiabili titoli. Nel dopoguerra, un solo altro parlamentare ha saputo realizzare con eguale abilità altrettante riforme: Lyndon Johnson, il presidente della «grande società», dell'integrazione razziale, del' pieno impiego, l'uomo poi tragicamente distrutto dal Vietnam. 11 tipo di leadership che Edward Kennedy impersonerebbe è preciso: è quello del New Deal rooseveltiano trasposto negli Anni Ottanta, ossia dell'assistenza sanitaria gratuita e dell'edilizia economica, gli attuali massimi problemi degli Stati Uniti; della fermezza nei confronti dell'Urss ma anche dell'appoggio al processo di liberalizzazione dei regimi autoritari del Terzo Mondo in politica estera; della mobilitazione delle risorse nazionali, umane e naturali, soprattutto giovanili ed energetiche. Egli sarebbe un capo torte ma non repressivo, rispettoso ma non ossequente al Parlamento, capace ma non partigiano nella scelta dei collaboratori. Tuttavia, quando si tratta del «clan», spesso queste considerazioni passano in secondo piano, e ne subentrano altre sulla vita privata dei suoi protagonisti, come in un romanzo d'appendice. Di «Ted» si sottolinea la propensione alla fuga dalla realtà, emersa nel dramma di Chappaquiddick, e di Joan la fragilità psicologica che l'ha spinta alla bottiglia; di Rose il cattolicesimo intollerante e l'inabilità a mediare, e di Jacqueline l'amore per il lusso e la mancanza di autocontrollo. Lo stesso presidente Carter non si perita di sfruttare que- sti aspetti del carattere dei Kennedy, e in palese contrapposizione ad essi sottolinea la propria «stabilità nella crisi», e la solidità della consorte Rosalynn, detta «la magnolia di ferro». Alla raffinatezza dei new englanders, di questi rappresentanti dell'aristocrazia storica bostoniana, contrappone l'elementarità dei, princìpi del suo «profondo Sud», casa, famiglia, rispetto delle forme. In tale quadro, come osserva causticamente la giornalista Mary McGrory, «diventa un torto suonare Mozart al piano come fa joan Kennedy, anziché giocare a rugby... e la confidenza assume più peso della competenza». Per un paradosso, Ù riserbo diviene un difetto, e si reclama il lavaggio degli eventuali panni sporchi in pubblico. Senza volerlo, il terzo dei Kennedy alimenta tale equivoco con un'inspiegabile timidezza nei confronti diretti. Egli è una singolare mescolanza di tribuno e di programmatore, ma anche di introversione e ritrosia. La sua oratoria è trascinante solo di fronte alla folla; nelle interviste, specialmente alla televisione, è inefficace. Da quando si è trasferito a Washington lasciando la moglie a Boston, la sua esistenza si è svolta tutta tra il Senato e l'abitazione. Ha smesso di frequentare belle donne, come la sciatrice Suzy Chafee e Margareth Trudeau, la moglie dell'ex premier canadese. Lavora «duro e bene» per la candidatura alla presidenza. Nonostante l'handicap del «clan» è il favorito: ed è infatti contro di lui, non contro Carter, che si appuntano le critiche del poker repubblicano: il governatore della California ed ex attore di Hollywood Ronald Reagan, l'ex democratico ed ex ministro del Tesoro di Nixon, John Connally, l'ex capo della Cia ed ex ambasciatore a Pechino George Bush, e l'ex membro della Commissione inquirente dello scandalo Watergate, il senatore Howard Baker. Fin dalle prime battute, della campagna elettorale, gli alleati e i nemici del terzo Kennedy si sono arroccati con chiarezza sulle rispettive posizioni. Ci sono dalla sua parte, compatti, i new englanders che cercano la rivincita dopo gli anni bui nixoniani, quelli grigi di Ford e il provincialismo georgiano di Carter: i cattolici, ma non tutti, perché il senatore non si è ancora pronunciato inequivocabilmente contro il divorzio e contro l'aborto; la maggioranza dei sindacati, che si è sentita tradita dal presidente, che gli rimprovera una politica economica favorevole al capitale: la «lobby» ebraica, timorosa dell'indecisione del¬ l'attuale governo di fronte all'Organizzazione per la liberazione della Palestina e alla strapotenza petrolifera dell'Opec; molte minoranze, quella femminile e quella negra innanzitutto, deluse dalle' impossibili promesse carteriane del 76. E come è ovvio, il fattore etnico svolge un ruolo importante: appoggiano «Ted» i gruppi razziali più numerosi, a cominciare da quello irlandese, il suo originario, e da quello italiano, che ha radici profonde nella macchina del partito. Né l'uno né l'altro si lasciano distrarre dai pettegolezzi sul «clan». I «nemici» sono i grossi interessi finanziari, l'opinione pubblica conservatrice, la religione protestante, la borghesia che si è ribellata alle tasse e ha paura che egli le aumenti per realizzare le sue riforme sociali, l'enorme massa che compone il «riflusso» che sta percorrendo l'America; nonché la gente del Sud, più vicina a Carter, e la gioventù cresciuta nello spirito del '68, che vede l'alfiere della contestazione nel «terzo uomo» del partito democratico, il governatore della California Jerry Brown. Sarà dunque una contesa lunga e incerta, aggravata dall'incognita iniziale degli eventi, da cui dipende il destino della presidenza medesima: l'Iran, Cuba, il greggio, l'inflazione e via di seguito. E' doveroso constatare che, qualora tali crisi si risolvessero, clan o non clan, Kennedy non potrebbe che stare a guardare: le probabilità di Carter di essere rieletto diverrebbero buone, perché gli Stati Uniti, prima di ogni altra cosa, sono un Paese in cui ai cambiamenti non è consentito di avvenire con scosse improvvise o eccessive. Ennio Carello Joan Kennedy, moglie di Ted