Goethe sotto le coltri di Carlo Carena

Goethe sotto le coltri Goethe sotto le coltri Johann Wolfgang Goethe: «Elegie romane», ed. Mondadori, pag. 111. lire 1500. «Eccomi ora a Roma, tranquillo e, a quanto sembra, acquietato per tutta la vitaTutti i sogni della mia giovinezza ora li vedo vivi», scriveva Goethe mettendo piede in Roma il V novembre 1786, trentasettenne. Come ricorda Roberto Fertonani nella sua edizione del testo — tedesco e versione italiana —, il desiderio smanioso di appropriarsi in prima persona e de visu delle forme e dei modelli antichi era un elemento di fondo nell'orizzonte culturale di Goethe, e la prima delle molle che l'avevano spinto a quel viaggio solitario. Ora la sua giornata passava nei salotti, nei musei, in gite fuori porta, e la sera a teatro o in trattoria ove i suoi connazionali dimenticavano sotto una pergola dorata dal tramonto le esecrabili nebbie del Nord. Si aggiungano gli studi e il lavoro di rifinitura di opere come l'Ifigenia in Tauride e l'Egmont. Pure, una decina di anni dopo quel soggiorno, appariva un mannello di liriche ispirate dal periodo romano, che sconcertò lettori e critici. Era la testimonianza di un amore furtivo, che aveva rallegrato se non le giornate le notti di Goethe a Roma. Goethe canta nelle Elegie /'amore con la giovane Faustina, non ulteriormente identificabile a dispetto degli sforzi degli esegeti, in un incrociarsi di piani: dalla precisione del dato ambientale alla sfumatura dei contorni e dell'individuazione. Goethe prende a modello gli elegiaci latini dell'età cesariano-augustea. Rarefatto ovviamente il mito, per il resto s'inciampa a ogni passo nella triade romana, i «triumviri d'Amore» come li chiama Goethe: Catullo, Tibullo. Properzio, quei poeti sognanti e gravidi d'amori traboccanti e ombrosi, quelli che hanno introdotto situazioni diventate topiche nella poesia europea: l'attesa, il compimento, l'attimo fuggitivo, j messaggi, la porticina di servizio, i giochi, le trapunte, la lucerna; il tormento e la pace. Meno il tormento e più la pace soddisfatta, meno il ricordo e più l'attesa, meno il dubbio e più l'abbandono animano Goethe a Roma con la fanciulla dedita e sicura, semplice e affettuosa. Tutto, spesso, nella filigrana d'un Ironia maliziosa che più. che della grazia settecentesca partecipa dell'inarrivabile altezza del genio goethiano: «Qui seguo il consiglio, sfoglio con assidua mano / gli scritti degli antichi... / Ma le notti... / non mi erudisco mentre spio le forme dell'amabile / seno, guido la mano giù per i fianchi?... / Spesso fra le sue braccia ho anche poetato / e scandito l'esametro con breve tocco di dita / sulla sua schiena». Soltanto Orazio, in verità, avrebbe saputo scrivere cose come l'elegia decima; forse soltanto lui ha vissuto con altrettanto ferma partecipazione e lontananza un amore furtivo, goduto cosi del tepore di un giaciglio servile, sentita la bellezza dei prodromi e l'ebrezza dei finali, aperto gli occhi su un volto dormiente vicino e lontano, ed espresso nella fermezza classica la labilità dello slancio amoroso, la beatitudine della semplicità di Lalage e di Foloe, e il protettivo, sapiente intermezzo gaudente di Volfango. La passione divorante, emblematica, dei loro contemporanei elegiaci o romantici è la più remota da questi due grandi saggi. Si aggiunga la forma esteriore di una strofe a distico, e la cornice è completa. Caduto nella trappola, Pirandello si provò a tradurre le Elegie romane sulta fine dell'Ottocento con una durezza e dei garbugli scostanti. La chiarezza, la fluidità di Fertonani rendono ora giustizia a una poesia cosi felice e cosi grande, a un rapporto amoroso senz'altri problemi che quello, esorcizzato, del mal francese. Carlo Carena

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