Vieusseux a Firenze impresario di cultura

Vieusseux a Firenze impresario di cultura A 200 ANNI DALLA NASCITA Vieusseux a Firenze impresario di cultura Fino alle soglie della seconda guerra mondiale, Firenze era fra le grandi città italiane quella con maggior numero di targhe francesi e inglesi. Targhe di negozi, insegne di alberghi, intestazioni di strade o di piazze: tutte deformate nella pronuncia dalla superba, atavica indifferenza dei fiorentini alle lingue straniere. Il grande commercio culturale d'Oltralpe, fra il Risorgimento e il post-Risorgimento, aveva finito per fare del capoluogo toscano il cuore di un certo internazionalismo ammiccante e scettico, riflessosi sul costume .della città, proiettatosi a temperare le asperità, le insofferenze, L capricci e anche le crudeltà del carattere fiorentino. Dopo il 10 giugno 1940 un turbine si scatenò su quelle testimonianze di una civiltà aperta all'Europa. Gli ordini categorici e insolenti del governo fascista si abbatterono su tutti i simboli di una comunicazione culturale e spirituale che aveva portato gli inglesi a costituire anche un proprio cimitero a Firenze (che non poteva più chiamarsi «degli inglesi») o anglicizzare, negli alberghi, gli stessi protagonisti del risorgimento nazionale (in piazza Vittorio Emanuele, l'albergo «Savoy» che diventò «Savoia»). Uno dei pochi nomi che si salvò dalla indiscriminata repressione del nazionalismo bellicista, dimentico di tutti i vincoli dell'unità nazionale e impegnato a colpire in particolare la Francia come storico avversario e antagonista dell'Italia (basti ricordare il volume di Ettore Rota), uno dei pochi nomi che sopravvisse, umbratile e distaccato com'era sempre vissuto, fu quello di Gian Pietro Vieusseux. Sia nella piazza, un po' periferica e appartata, che a lui era stata intestata, sia e soprattutto nel «gabinetto scientifico-letterario» di palazzo Strozzi che era riuscito a superare, indenne o quasi, anche l'epurazione due anni prima, nel 1938, del suo direttore non iscrìtto al pnf, Eugenio Montale (allora la ritorsione sul poeta si era esercitata, da parte delle autorità fasciste vincitrici, nella riduzione ingiustificata e .immotivata della liquidazione spettante al direttore licenziato, ridotta da 28 mila a 22 mila lire, dimenticando quante volte, nei dieci anni della sua guida. Montale non fosse riuscito neanche a raggranellare le mille lire ufficiali ma sovente teoriche del proprio stipendio). Vieusseux sopravvisse. La 'Spiegazione ufficiale, quasi poliziesca: era nato a Oneglia (città che infatti ne rivendica integralmente la memoria, anche in questo duecentesimo anniversario della nascita) e sia pure sul tronco di una famiglia svizzera di antico solido ceppo, di Ginevra. La nascita faceva premio sul cognome; la Svizzera non era in guerra con l'Italia, e con gli interessi elvetici pendenti a Firenze non conveniva neanche urtarla oltre un certo limite. E i fiorentini poterono con-, tinuare, anche durante gli anni delle distruzioni e delle ferocie belliche, a storpiare quel nome che non era stato mai popolare in Toscana ma sempre di casa, che era stato più allusivo, a una realtà da pochi conosciuta e magari intuita, che emblematico di una storia penetrata nell'interno, e integralmente acquisita. Una memoria storica, quella del fondatore dell'«Antologia» e dell'«Archivio storico italiano», che si riproduceva di generazione in generazione, più per fedeltà al lontano modello risorgimentale che non per conoscenza speci-' fica di una parabola intellettuale non affidata né a libri consistenti né a validi titoli di tradizione retorica. Diverso il Vieusseux che ci viene incontro oggi che scoccano due secoli dalla sua nascita; ricordati a Firenze con discrezione tutta fiorentina: alla luce di una serie di studi, cui ha concorso validamente anche il versante marxista. Il nome rimesso nel circolo del dibattito culturale anche di recente: allorché sembrò che la rivista prosecutrice diretta dell'«Antologia» da più di un secolo, cioè la «Nuova Antologia», dovesse chiudere i battenti, per la crisi dovunque incombente sulla cultura libera, non sorretta né dalla «Sipra» né dall'«Egam». Una serie di convegni. all'Accademia dei Lincei e altrove; echi e contraccolpi fuori d'Italia. Una riscoperta, da parte dei giovani studiosi, sul taglio più moderno, come primo imprenditore culturale in Italia, come animatore e promotore della prima editoria risorgimentale, anticipatrice dei Pomba e dei Le Monnier, fondata insieme sui dati del profitto economico e sugli obiettivi del riscatto nazionale. «Centro di propaganda intellettuale — per usare i termini di Antonio Gramsci — per l'organizzazione e la condensazione del gruppo dirigente della borghesia del Risorgimento». Fino a Vieusseux direttore dell'«Antologia», nessuno compensa in Italia gli articoli delle riviste di cultura o di «varia umanità». Pochi anni prima della fondazione a Firenze dell'«Antologia» nel 1821 (inizialmente, per sfuggire alle maglie della censura, antologia di soli brani tradotti da periodici stranieri: ma appena per un anno), c'era uno stravagante mecenate inglese, il cavalier Lawley, che in qualche caso, a suo assoluto arbitrio e capriccio, e solo in base alla maggiore deferenza dei collaboratori verso i suoi ordini, corrispondeva un compenso concepito come «premio». La sua rivista si chiamava, con termine incredibilmente moderno, «Il Saggiatore». Ma quella forma inedita di compenso corrispondeva solo a una variante dell'antico mecenatismo principesco o ecclesiastico che aveva sempre valutato la cultura come «affare di corte» o di famiglia, nello schema, malinconico, del Parini. Vieusseux, prima di fare il direttore di riviste, è stato commerciante in tutta Europa, ha sfidato per i propri commerci anche il blocco continentale di Napoleone. Ha viaggiato il mondo, dalla Russia alla Norvegia. Ha messo da parte un po' di soldi e già quarantenne, con una discreta biblioteca propria, con una cultura del tutto da autodidatta, piuttosto attento ai fenomeni economici e mercantili, senza nessun residuo paralizzante dell'arcadia o del classicismo, pianta le tende a Firenze, nel clima pacioso e assonnato e tutto sommato abbastanza tollerante della restaurazione. Siamo al 1819. Vieusseux vuole fondare, con criteri economici, un'impresa di cultura. Pensa — idea assolutamente nuova per la Toscana e per l'Italia — a un gabinetto di lettura che presti libri, che offra sale di consultazione (per le enciclopedie e i prontuari), che riunisca un certo numero, oltre quaranta all'inizio, di gazzette straniere. Investe i suoi risparmi in un'impresa che poteva sembrare cervellotica o avveniristica all'inizio: ha successo, non tanto per le adesioni dei fiorentini che saranno scarse (c'è in questi giorni una mostra di inediti a Firenze che lo dimostra) quanto per le numerose sottoscrizioni di stranieri sostanti sulle rive dell'Arno. Impone una tassa equa per le iscrizioni al circolo: 90 paoli per un anno, 60 per sei mesi, 40 per tre mesi, 30 per un mese, 10 per una settimana, 2 per un giorno. I profitti dell'impresa saranno volti ad alimentare la cultura. «Si deve pagare per leggere, ma si deve pagare chi scrive». E' una specie di rivoluzione copernicana, contro le tradizioni del paternalismo cortigiano Vieusseux introduce un metodo egualitario: paga a pagina, ma con le varianti delle gerarchie intellettuali del tempo. Pietro Giordani, per esempio, l'altero e scontroso maestro di Leopardi, riceve 90 franchi a pagina: il medio collaboratore fra 30 e 40. Tommaseo, che riesce a farsi assumere come una specie di «redattore» ante Ulteram, scrìve tanto che il suo cottimo rischia di compromettere le sorti della rivista: il bonario editore lo richiama all'ordine, seleziona gli argomenti, respin ge i riempitivi. C'è qualcosa in Vieusseux che anticipa Gobetti, come im presario di cultura. Una fede illimitata nella carta stampata; l'editorìa come veicolo dell'ir luminismo. E una vita, tanto più lunga di quella di Gobetti. impegnata a formulare progetti, a schizzare piani anche irrealizzabili. Dopo la morte dell'«Antologia» nel 1833 (era arrivata a 711 copie: un primato per l'Italia di allora, divisa in dieci Stati), penserà perfino a una rivista da chiamare la «Fenice», la riapparizione. Resterà tutta la vita con la nostalgia di quella sua «Antologia», un po' la «Rivoluzione liberale» del nostro Gobetti. E non riuscirà, per soli tre anni, a vedere la «Nuova Antologia» che saluta nel 1866 la capitale trasferita, senza nessuna voglia dei fiorentini, nella città del giglio. Non a caso Montale, il futuro direttore del «gabinetto Vieusseux», stamperà il suo primo libro di poesie da «Piero Gobetti editore». Giovanni Spadolini