Storie di reduci dal fronte russo

Storie di reduci dal fronte russo DOPO IL CONVEGNO SULL'ARMIR Storie di reduci dal fronte russo Da noi in Italia, credo, è la prima volta che una vicenda riguardante la seconda guerra mondiale viene affrontata e discussa nei suoi molteplici aspetti come è accaduto a Cuneo nel convegno storico internazionale «Gli italiani sul fronte russo». Insomma la ReJ gione Piemonte e l'Istituto Storico della Resistenza hanno fatto quello che finora nessun altro Ente o Centro studi era riuscito; e speriamo sia motivo per altre iniziative, e d'esempio per altri, e che si inizi, finalmente, e dopo più di trent'anni, a smitizzare e a dire la verità sul nostro passato: è giusto che la gente sappia, i giovani specialmente, al fine di far cadere miti e falsità. E anche illusioni di chi ancora aspetta un congiunto dato per «disperso»; e porre fine a speculazioni politiche sui sentimenti della povera gente. Allusioni sentimentali di questo genere sono pure affiorate qua e là durante il convegno con qualche intervento estemporaneo, ma testimonianze come quella di Giuseppe Lamberti, ultimo comandante del battaglione Cervino in Russia, e di Fidia Gambetti, reduci dai campi di prigionia dell'Urss, ma più ancora la dettagliata e chiara relazione di Valdo Zilli, docente di storia dell'Europa orientale e già a suo tempo prigioniero di guerra in un campo tra Mosca e gli Urali, sono prove inconfutabili per chi vuole sapere la verità. Ma mentre nel Teatro Toselli gli studiosi, gli studenti, qualche reduce e qualche famigliare di «disperso» e i molti cittadini seguivano le esaurienti relazioni degli storici italiani e stranieri, il mio pensiero qualche volta scappava verso una valle non lontana, la Maira, e si fermava in un piccolo' villaggio: 1), da un gruppo di quattro case unite tra loro dai grandi tetti di ardesia e dai portici a volta in pietra viva, tra il 1939 e il 1942 erano partiti tutti i giovani. Non per emigrazione o per ragioni di lavoro, ma per la guerra. E nessuno era più ritornato. E non so se sono ancora vivi quei due o tre vecchi che qualche anno fa abbandonarono per ultimi le. remote case e sono scesi in un «Pio ricovero per anziani» sorto dove la valle sbocca nella ricca pianura. Ricordavo quelle case come le avevo viste quattro anni or sono: il silenzio che era rotto soltanto dal vento che entrava dalle porte cigolanti e usciva per le finestre; le supellettili,' le fotografie alle pareti, gli attrezzi di lavoro, i poggioli di legno marcio, le stalle vuote, l'erba che cresceva sugli usci, le ortiche lungo i muri. Avevo, camminato per quelle stanze 'senza vita e nei cortili senza giochi; avevo guardato i focolari senza fuoco, i fienili senza fieno, le legnaie senza legno. Guardavo questo e ricordavo una fila di alpini morti e il vento che mulinava la neve sulle loro barbe ghiacciate e sugli occhi immobili. Durante una pausa del convegno, una signora che aveva seguito con attenzione le relazioni mi chiese: «Ma voi, reduci di Russia, avrete tutti una pensione?». «No, non tutti, risposi, personalmente non ho mai chiesto niente». Ma poi le raccontai queste due brevi sto-, rie. Tullio, da Forno di Zoldo, è del 1922; prima di venire in Russia aveva lavorato a portare sacchi di cemento sulle vette del Cadore per fare i basamenti ai tralicci delle linee elettriche. Era forte e sano come un giovane camoscio. Uscì dalla sacca del Don combattendo e pestando la neve in testa alla' colonna della Tridentina. Quando giungemmo a Carcov, aveva un congelamento e la polmonite. In qualche maniera arrivò in Italia, a casa, e l'8 settembre 1943 si trovava in convalescenza; qualche tempo dopo venne precettato dall'esercito di Graziani ma lui era già partigiano con il simpatico nome di battaglia «Cometì», Come-te. Divenne comandante di un piccolo reparto e combatté fin sui confini con l'Austria. Ai primi di maggio del 194? consegnò le armi e ritornò nella sua casa ai piedi del Pelmo; si sposò e la vecchia madre gli diede la sua parte di fagioli e un po' di farina per passare l'inverno. Ma la scorta fin) prima e allora prese la «cassetta» di rame a tracolla e con la moglie andò a Trieste per vendere ìe pere cotte ai soldati alleati che erano lì a presidiare. D'in¬ verno vendeva pere calde e castagne, d'estate gelati. Camparono così un paio d'anni; quando a Trieste venne la crisi perché gli alleati erano andati via, pensarono, loro .due, di passare a lavorare in Germania. Dagli altri zoldani che li avevano preceduti impararono a fare i gelati; misero su pure loro una gelateria e risparmiando marco sopra marco e allevando i due figli riuscirono a costruirsi una casa nel paese d'origine, dove sempre ritornavano per svernare. Ma ora Tullio è ammalato e da anni non può più lavorare: il cuore non gli funziona e nemmeno più tanto i polmoni; e non ha nessuna pensione. Sette o più anni fa, ricordando quanto aveva passato in Russia e da partigiano, fece domanda per pensione di guerra. Ora le carte sono per gli uffici di Roma e dovrebbero discutere la pratica alla Corte dei Conti, ma un giorno, forse — e io spero proprio di no! — gli comunicheranno che «la domanda è respinta per mancanza di documentazione». Anche Angelo dei Casati ha una pratica ferma a Roma da più di dieci anni. E' della classe del 1920 e nell'agosto del 1942 lo mandarono in Russia con la Julia: lui, suo fratello e altri paesani; e siccome erano alti e forti e lavoravano nei boschi, li misero nell'artiglieria alpina. Nel gennaio del 1943 venne fatto prigioniero; scappò, fu ripreso; ancora fuggì dalla colonna e riuscì a passare l'inverno in un'isbà fuori mano, con una donna. Quando nella primavera tutti i prigionieri vennero raccolti da ogni angolo remoto, venne mandato in Siberia a fare «la norma» nella foresta. Lì si prese il tifo esantematico. Dopo passò nell'Asia Centrale a raccogliere cotone e anche lì si ammalò: dissenteria, tubercolosi e chissà cosa altro ancora perché lo misero nella compagnia dei distrofici, i morituri. Si salvò; nel 1946 ritornò in Italia. Da Bassano al paese, quaranta chilometri, impiegò tre giorni a piedi perché non aveva da pagarsi la corriera; dormiva nelle cunette e per mangiare chiedeva la carità. Una notte, finalmente, arrivò a casa e bussò alla porta. Bussò e bussò e suo padre venne ad aprirgli: guardò quello strano essere magro e lungo dagli occhi fondi e luccicanti, e che non riusciva nemmeno a parlare, e rinchiuse la porta. Allora Angelo si sdraiò davanti all'uscio come un cane fedele, aspettando mattina. Il padre lo ritrovò così. Dopo un po' di giorni il medico condotto lo fece ricoverare in un ospedale per tubercolotici. Di lì a un paio di mesi riprese a lavorare nei pochi campi e nel bosco, ma era pur sempre fame e miseria; chiese di fare il guardiaboschi comunale, ma come lui ce n'erano altri. Allora, clandestinamente, emigrò in Belgio per lavorare nelle miniere di carbone: dopo un anno dovette ritornare perché non poteva resistere alla «pussiera», la polvere che provoca fibrosi polmonare. Sulle nostre montagne lavorò allora nelle cave di marmo rosso: almeno era all'aria buona. Ma a causa di tutte le sofferenze patite in guerra e in prigionia dovette smettere ben presto, e allora fece domanda di pensione. Da più di dieci anni aspetta. Riuscirà a vedere la lettera in cui si comunicherà' che «...alla S. V. è stata concessa a vita la pensione di guerra...»? Ecco, dietro alle relazioni degli storici e alle verità dei grandi avvenimenti ci sono queste piccole vicende umane. Mario Rigoni Steri»

Persone citate: Casati, Fidia Gambetti, Giuseppe Lamberti, Graziani, Maira, Mario Rigoni, Valdo Zilli