Giustino Fortunato e l'ira di Salvemini

Giustino Fortunato e l'ira di Salvemini NEL «CARTEGGIO 1912-1922» Giustino Fortunato e l'ira di Salvemini Chi abbia Ietto Una scelta dì vita di Giorgio Amendola non può avere dimenticato le pagine sulla casa di Giustino Fortunato. Siamo nella Napoli del 1927-28. pullulante di antifascisti che trovano nella biblioteca di Croce un riparo e una qualche forma di protezione e di asilo: antifascisti soprattutto giovani, oscillanti fra liberalismo e democrazia e socialismo, delusi dalle esperienze recenti, compresa quella aventiniana, ansiosi di nuovi sbocchi, talora inseguitori di nuovi fantasmi. Nella casa di via Vittoria Colonna, Giustino Fortunato, il grande meridionalista che aveva conosciuto dopo il '60 la ferocia della guerra fra briganti e borghesi — la vera «guerra civile» del Sud — riceve tutti i giorni dalle 16 alle 19: seduto in una grande poltrona con le gambe coperte da un plaid Nel 1928 Fortunato ha già compiuto ottant'anni, ma la sua parabola intellettuale e politica gli ha consentito di vivere, intero e senza illusioni, il dramma del «suo» Mezzogiorno, con un pessismismo solcato da note di Ecclesiaste. Il giovane Amendola, non ancora passato al comunismo ma già distaccato dal filone paterno, incontra in quelle stanze severe personaggi di contrastante rilievo, quasi a rispecchiare la complessa e frastagliata vita del protagonista al tramonto: vecchi principi napoletani (uno si proclamava figlio naturale dell'ultimo dei Borboni) ma anche democratici di schietta tempra come Umberto Zanotri-Bianco (che un giorno portò a Fortunato un pezzo di pane acquistato ad Africo, presso Reggio Calabria, il giorno prima, che sembrava diventato una pietra scura) o scintillanti giornalisti di un filone liberale che aveva risentito Oriani, come Floriano Del Secolo. «Conversatore infaticabile»: lo descrive Amendola. Prodigo di notizie sul Mezzogiorno, instancabile nel descrivere le miserie e le insufficienze di quelle terre del Sud, su cui gravava una maledizione divina, rivissuta con trasalimenti laici. Ma avverso, come il suo amico Croce, come tutti i veri bibliofili, a ogni prestito di libri. Al giovane impertinente e intemperante, che aveva chiesto in prestito la Storia dei moti di Basilicata del 1860 di Giacomo Raccioppi nella ristampa Iaterziana del 1909 (quasi frammento della tormentata adolescenza del padrone di casa), Fortunato opporrà un secco rifiuto. Ma il giorno successivo farà recapitare a casa di Amendola, dal suo cameriere, un altro esemplare del libro del Raccioppi. Segno di stile, e insieme — come tutti i bibliofili sanno — garanzia sicura per evitare ulteriori richieste di prestiti. Uomo di un rigore formale ineccepibile, sempre, Giustino Fortunato. Con qualcosa della delicatezza e della suscettibilità che caratterizzeranno un altro notabile meridionale un po' più giovane di lui, Enrico De Nicola. Chi sosti sulle pagine del secondo Carteggio 1912-1922, uscito recentemente da Laterza, a cura, come il precedente, di Emilio Gentile, accorto e amaro studioso dell'epoca giolittiana, nel quadro di un'iniziativa promossa da Rosario Romeo, non potrà non restare colpito da certi dati di carattere, che si identificano con elementi di costume, che finiscono per delineare, attraverso i particolari, un'intera concezione della vita. Fortunato, uomo del profondo Sud, originario di Rionero nel Vulture, fra Melfi e Potenza, non è mai stato un giolittiano. Piuttosto vicino a Sonnino, il dirimpettaio conservatore del progressista Giolitti fin dalla fine del secolo: ansioso e curioso del Mezzogiorno, e dei suoi problemi, e delle sue tragedie, il barone toscano, quanto lo statista piemontese faceva il possibile per sembrarne lontano, alteramente distaccato. Ha votato due volte a favore di governi — lo raccontava al giovane Amendola —: una volta per Depretis, l'altra per Zanardelli. In un arco di vita parlamentare quasi trentennale, prima dell'ingresso in Senato, nel 1909. Gli attacchi a Giolitti non si contano. L'incontro con Salvemini — un incontro importante nella vita di Fortunato — ha accentuato le vene di quell'antigiolittismo di fondo, con qualche radice di risentimento meridionale, di orgoglio ferito od offeso. Il «ministro della malavita» è formula che racco¬ glie, pur nella sua ingiustizia, il consenso del grande conservatore-liberale lucano. Ma la guerra del '15 — la «guerra sovvertitrice», come la chiamerà Fortunato in pagine indimenticabili — cambia tutto. D notabile di Rionero è per la neutralità, come l'ex-presidente del Consiglio di Dronero. Intuisce tutti i rischi di una conflagrazione devastatrice per l'Italia, non fa fatica a immaginare le conseguenze sconvolgenti per il Mezzogiorno, serbatoio delle fanterie che saranno mandate al massacro sul Grappa e sull'Isonzo. Lo spartiacque fra giolittiani e antigiolittiani si spezza col nostro intervento nella prima guerra mondiale, il 24 maggio. Alla fine di quell'anno fatale, Fortunato invia gli auguri di Natale a Giolitti: abbiamo perduto il biglietto, ma non la risposta dello statista piemontese. «Mi associo ai tuoi voti che il nuovo anno veda una fine vittoriosa di questa guerra che insanguina il mondo e minaccia la civiltà». «Minaccia la civiltà». E' lo stesso linguaggio di Croce. E quando Croce diventerà, proprio col Giolitti avversato o almeno non amato, ministro della Pubblica istruzione nel governo del giugno 1920, Fortunato traverserà — lo rivelano le pagine di questo carteggio — uno dei momenti più dolorosi nei suoi rapporti, ormai pacificati e distesi, con Giolitti. E' Salvemini a provocare l'incidente, con la sua veemenza. Salvemini deputato contro-voglia: parlamentare, eletto dai combattenti, non privo di bizze e di asperità. Anti-crociano sempre. E quindi avverso a quel tandem Giolitti-Croce. In piena Camera, lo storico pugliese, intervenendo sulla fi- ducia al governo, ricorda che nel 1905 «un vecchio uomo politico si recò da Giolitti a proporgli la nomina a senatore di Croce. 'Croce, mai sentito nominare": rispose Giolitti. E l'altro: "Ma è un filosofo". "Un filosofo: assumerò informazioni"». Giolitti, dai banchi del governo, nega con una punta di sdegno. Salvemini insiste: alle strette fa il nome dell'informatore di allora, Giustino Fortunato. Don Giustino è sconvolto. «Salvemini ha abusato indegnamente di me, suo amico»: scrive il 6 luglio 1920 a Zanotti-Bianco. Non ricorda neanche la confidenza, forse un aneddoto: comunque fatta in via riservata. Telegrafa a Croce e a Giolitti: «Non ho parole per deplorare l'abuso fatto alla Camera del povero mio nome». «Non so darmene pace»: incalza. Esige una spiegazione da Salvemini, che gli risponde con irritazione fra candida e stupita: «Solo il padreterno aveva ordinato dal Monte Sinai di non fare il suo nome... Dopo il padreterno ci sei tu... ». Ma Fortunato è tranquillo solo quando Giolitti lo rassicura. E la lettera del settantanovenne presidente del Consiglio, datata 10 luglio, riassume interi lo stile di un uomo, l'orgoglio di una vita. «Posso assicurarti, scrive Giolitti, che alle parole di costui (costui sarebbe Salvemini) la Camera non diede importanza alcuna, e io appena me ne accorsi, e certamente non mi passò per la mente di dubitare che tu avessi parlato mcn che amichevolmente di me». Lo screzio su Giolitti non sarà mai del tutto risarcito, fra Fortunato e Salvemini, nonostante le imminenti convergenze politiche nella lotta alla dittatura. Sul fronte variegato e composito del liberalismo meridionale. Fortunato sarà il solo che coglierà fin dall'inizio l'essenza autoritaria e reazionaria del fascismo, il solo che non conoscerà, nel suo sterminato pessimismo, neanche un momento di illusione sul moto delle Camicie nere: «Ultima follia post-bellica», come lo chiamerà 1*8 novembre 1922. consentendo con la Rivoluzione liberale e criticando Croce, che «ha plaudito e plaude a Mussolino». Fortunato deforma ad arte la grafia del nome del futuro duce del fascismo, quasi per non cadere in nessuna di quelle infatuazioni, comuni a vecchi amici suoi come Salandra, sul fascismo come forma anomala e paradossale di «restaurazione liberale». Con cinquantanni di più sul piano dell'anagrafe, Fortunato sarà per il Sud quello che Gobetti rappresenterà per il Piemonte e per l'Italia padana. Fedele allo stesso insegnamento gobettiano: «La sicurezza di essere condannati è la sola che possa dare l'entusiasmo dell'azione, con la responsabilità, con il disinteresse». Giovanni Spadolini