Piovene, gli idilli mancati di Guido Piovene

Piovene, gli idilli mancati RICORDO DELLO SCRITTORE A CINQUE ANNI DALLA MORTE Piovene, gli idilli mancati A mano a mano che crescono, com'è giusto, gli studi sulle opere di Guido Piovene, quel piedistallo che innalza lo scrittore, allontana l'uomo: io vorrei qui richiamare oggi, tra noi, quel giovane biondo e garbato, geniale e infelice, che ho conosciuto cinquantanni fa. Perché infelice? Perché il suo infrenabile ingegno prevaricava la sua natura, che appariva quella di un adolescente orfano di se stesso, che Guido Piovene era impegnato a diseducare. Io quell'adolescente non l'ho conosciuto, ma lo ritrovo nelle pagine del suo primo libro. In un racconto di La vedova allegra il protagonista, un giovane ufficiale, parla di se stesso: «Il mio sforzo più continuo, e quasi maniaco, fu quello di adattarmi, di rimanere quello di prima (...) Mi tenevo chiuso in me stesso, parlando poco, guardando poco (...) come se la minima distrazione aprisse un uscio, di dove sarebbe entrata in me una seconda adolescenza, piena di contraddizioni, altrettanto penosa di quella passata (...)». 11 tempo del racconto è quello della ritirata di Caporetto, quando Guido era un bambino e sembra che lo scrittore attribuisca all'adulto i propri sentimenti di quegli anni infantili. Guido, autorevole per nascita, subito riconosciuto nel suo ingegno, poco più che ventenne era già un protagonista. Tuttavia, non so quale pallore interno, quale indifesa delicatezza nel tratto mi abbia spinto sino dai primi rapporti a un atteggiamento protettivo, che non mi spettava e di cui Guido non aveva bisogno. Se oggi, dopo cinquantanni di un sodalizio fraterno, cercherò di riportarlo tra noi, fragile e fortissimo, infantile e vecchissimo, stella fredda nel vento delle sue passioni d'accatto, è facile che io indulga a quei primi ricordi, perché continuo a pensare che le opere di Guido debbano essere lette riferendo ogni parola più che al suo intelletto senza pace, alla disperazione di averlo, più che alla sua vita adulta, alla sua adolescenza. Qualcuno potrebbe dedurre da questi accenni che io sto indicando i tratti di uno scrittore che vive nell'idillio dell'età prima. Ebbene, io credo che i «mostri» e i «delitti» che popolano i libri di Guido siano stati all'origine altrettanti idilli mancati, a cominciare dal padre, dalla società, dalla religione. Guido non ha mai accettato quella sconfìtta. «Resta da spiegare, scriveva nella prefazione alla Novizia, perchè io abbia descritto in modo così esclusivo gente di quella specie. Perché non avrei potuto fare diversamente. Chiunque di noi scriva libri, cerca di fornire figure del bene come del male, ma ricava le une e le altre da una medesima qualità umana sua personale e diversa dalle altre, da cui nascono il bene e il male di volta in volta; la qualità di questo libro è, piaccia o non piaccia, la mia, s'intende come scrittore». Sincero, quando voleva, fino alla spietatezza, fedele come una monaca portoghese, per restare fedele a se stesso si buttava sui contrari: per difendersi si accusava, per accusare si difendeva, per essere libero si incatenava, come i bambini che giocano a guardie e ladri. Questo atteggiamento lo portava ad amare gli estremi, dove l'ambiguità è adoperabile come «diplomazia intima», che egli usava anche verso se stesso. Perché lo faceva? Perché così si raddoppiava. Nelle serate di festa, che richiamavano il suo ancestrale garbo mondano, d'un tratto, ridendo da solo, usciva agli scherzi, ai giochi di parole, col viso schiarito da premiazione in collegio. I presenti, rispettosi, cercavano di collegare quella biricchineria al suo vorticoso ingegno. Sbagliavano: era l'infanzia che tornava con la malizia del rifiuto del mondo adulto. Lo ha rifiutato sempre, perché quel mondo aveva in sé la morte. D suo rapporto con la natura, al mare, per esempio, era nello stesso tempo voglioso e diffidente. Si abbandonava al sole con voluttà ma coprendosi tutto, così che il piede o la mano rimasti scoperti diventavano rossi come papaveri. Avete in mente i bambini che entrano in acqua per la prima volta, timidi e inconsapevoli? Renato Guttuso. con quel suo fisico da pescatore di perle, gli somigliava. A coppia, tenendosi per mano, si avventuravano a piccoli passi, mentre i bagnini, seguendoli con gli occhi, si accostavano alla riva. Quell'impaccio per qualche tempo ha tenuto nascosto a chi gli stava vici- no l'altro impaccio crescente, che lo avrebbe ucciso. Alberto Savinio morì per un attacco cardiaco. Ne avesse avuto il tempo, avrebbe guardato in faccia la morte, magari mettendole una testa d'oca, da stupida e presuntuosa. Corrado Alvaro ha avuto il tempo di vederla avvicinarsi come un ladro che entra di notte nel granaio. Sapeva il male che aveva e le cure non erano per lui più di una pattuglia di carabinieri che fanno quello che possono: una questione d'ordine. Accettava la morte perché credeva all'ingiustizia. In qualche raro momento di abbandono. Guido diceva che non voleva più vivere. Non era vero, era soltanto stanco di cercare quel punto fermo che la sua natura fondamentalmente religiosa gli faceva sperare senza prometterglielo. Quando mi portò Le lettere di una novizia, fu un giorno di festa. Lo aspettavo da dieci anni. Eravamo giovani e credevamo alla letteratura come a un bene superiore e imbattibile. Tutto il resto appariva provvisorio, comprese la politica e la guerra. Sbagliavamo, s'intende, per entusiasmo. Con La coda di paglia Piovene ha ripercorso quei tempi come la storia di un naufragio. Si dibatte tra le onde per portare in salvo i libri che scriverà. Oggi anche i più lontani mostrano di capire che tutta l'opera di Piovene viene avanti come un libro unico: la grande, accanita, inevitabile confessione di un figlio di più secoli che batte il capo contro l'ambiguità delle ragioni, tentando di salvare la coscienza nello scambio dialettico tra la mente e la storia. La sua vita sembra puntata sulla vecchiaia, che è un'infanzia rovesciata, pacificata e distesa: un ciliegio fiorito diventa un bene supremo. Da vecchi si guarda con gli occhi di chi domani non vedrà più e tutto si fa più bello e più sacro. Nella vecchiaia la novizia avrebbe fatto con distacco il bilancio della vita e della morte. Non è vero, come si dice, che si ha una sola vita: se ne hanno mille, ma si ha una sola vecchiaia, di cui Guido è stato depredato. Una malattia senza recuperi, che ogni giorno riduce le facoltà fisiche e soltanto quelle, è un oblio che cresce intorno, da vivi: una morte anticipata, misurabile sul silenzio degli altri e insostenibile. In qualche momento l'idea del suicidio Io avrà invaso, ma c'era accanto a lui la sua consorte. Questo termine bellissimo, che la burocrazia ha stinto e inaridito, ha trovato nella consorte di Guido il suo significato pieno e pietoso. Mimy ha condiviso ogni ora, ogni gesto, ogni impaccio e il dolore. Nascostamente materna, col viso sempre spianato, ha trasfuso per anni in mille modi ed espedienti la sua carica vitale come una cura estrema, senza speranza. Riusciva a rompere i silenzi di Guido, sempre più compatti, con elementi occasionali di vita spicciola, richiamata e discussa con lo spreco di quando il tempo è davanti e illimitato. Sono passati cinque anni. La fortuna di averlo conosciuto e frequentato ci ha nutriti e siamo qui oggi per dirlo. Libro per libro, personaggio per personaggio, nelle opere di Piovene tutto è autobiografico, in misura crescente nei libri scritti con lo spettro della morte. Guido è la novizia, Guido è il paesaggio veneto «nell'infinito della sua ambiguità». Guido è il padre che programma secondo la logica il suicidio; Guido è Dostoevskij che torna sulla terra; Guido è il poliziotto Sergio che, come dice, ha scelto «modestamente, la parte di Dio»: disperazione di quella scelta, che riporta il tutto filosofico adoperato per sistemare l'universo, alla solitudine della propria condanna. Guido è anche i suoi «mostri» così come gli apparivano nei sogni. Mi diceva una sera: «Faccio dei sogni terribili, non so se sono persone o dèmoni; magari sogno di voi e, mi vergogno a dirlo, mi difendo con segni di croce». Enzo Bettiza nel suo saggio tutto ammirevole per la finezza dell'analisi e la persuasività delle conclusioni, indica, com'è giusto, nelle ultime opere di Guido {'«assalto all'ai di là», la «sfida che ha per posta il tutto e il nulla» e che si conclude nella disperazione del nulla, sotto il silenzio di Dio. Io mi fermo un momento prima o un momento dopo, sollecitato dal pensiero di una fine meno buia e meno vuota. Al principio delle Stelle fredde nel dialogo col medico, questi dice all'io narrante che il suo udito è normale. L'altro insiste a dire che non sente e si comprende che rifiuta di udire. «Quello che era il mondo umano, dice, non c'è più (...) Ne restano i simulacri, esseri umani finti, ma condannati a credere che esiste ancora (...), i morali, i fanatici, i missionari, i predicanti, i passionali, i sinceri. Orribilmente falsi. Orribilmente spettri. Disgustosamente parlanti. E'come parlare con esseri di un altro tempo proiettati dagli astri (...). Figure gelide, stravolte, bestiali, mostruose, sepolte nelle viscere, perchè non riescono più a salire al cervello... ». Questo pensiero distruttivo è al principio del romanzo, ma quando si arriva al racconto dell'aldilà fatto da Dostoevskij redivivo, quel giudizio sembra soltanto anticipato. Ci colpisce la somiglianza del mondo ipotetico ultraterreno col nostro, con la nostra vita su questa terra. Poche pagine più in là, il protagonista, che identifichiamo con l'autore, si mette a schedare con furia ossessiva la realtà intorno a lui. Comincia coi mobili che il padre ha venduto, ricostruiti nella memoria e descritti minuziosamente; poi quelli rimasti, poi «gli alberi, i fiori, i paesaggi, le persone... schedava gli effetti di luci della luna sui legni... i diversi rossi e rosa suscitati dal sole sulle pareti delle stanze... le nuvole in lotta col cielo... tutto ciò che si vede per farlo cessare di esistere». Questo flusso di morte inghiotte tutta la vita, ma subito dopo c'è un'altra faccia, come dice lo stesso autore: «Capii che il catalogo degli oggetti apriva la strada a un secondo, la sua seconda faccia, in cui si completava ma senza mutare natura. La descrizione degli oggetti si prolungava in altro. Era il recupero dei morti». L'idea della morte si coima così di un'altra eternità su questa terra: la parola, che rende eterno ciò che l'uomo «ha visto». Quanto all'aldilà, sappiamo, sicuri come se lo sapessimo, che avvicinandosi alla fine, i «mostri» di Guido sono fuggiti. Nell'incontro col buio, c'è un volo di colombe. Valentino Bompiani Guido Piovene

Luoghi citati: Caporetto