Chi ha piegato la Leyland di Arrigo Levi

Chi ha piegato la Leyland LA VECCHIA «MINI» NON PUÒ' SALVARE L'AZIENDA Chi ha piegato la Leyland Il gigante inglese dell'automobile è un insieme di Case addirittura antagoniste: fin dagli Anni 50 hanno perso terreno e mercati; la mancanza della sfida europea ne ha aggravato il provincialismo - Fabbriche senza capi né disciplina, lo strapotere sindacale, la conflittualità selvaggia dissuadono gl'investimenti DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE LONDRA — A prima vista la cosa più strana, nella crisi della British Leyland, è che la crisi ci sia, e cosi acuta, forse fatale. E' strano per tante buone ragioni. Anzitutto, questo è un Paese di grandi e antiche tradizioni industriali e automobilistiche, che ha prodotto, nella sua storia, una gamma di auto estremamente varia e ricca. L'Inghilterra ha grandi tecnici e operai espertissimi; la rete di vendita è sviluppatissima; il mercato nazionale inglese è pari a qualsiasi altro europeo, si avvicina ai due milioni di veicoli l'anno, mentre l'Inghilterra ha oggi accesso, alla pari degli altri, al Mercato comune europeo, che è di ben 10 milioni di veicoli l'anno. Ha ragione David Andrews, vicepresidente della Leyland, quando mi dice: •Se in Inghilterra non ci fosse una grande industria dell'auto, bisognerebbe inventarla-. Ma allora, perché questa grande industria è In grave crisi? A questo quesito si possono dare due risposte, una lunga e una breve. Quella breve è molto semplice: la Leyland è In crisi perché agisce In un mercato, e, per brava che sta, è meno brava del concorrenti. Non Importa che et sta la tradizione, la tecnica e tutto il resto: se si è meno competitivi, In un mercato aperto si è sconfitti. Negli ultimi ventanni sono finiti t mercati nazionali chiusi, dove il 'produttore numero 1* era sicuro di prosperare comunque, non poteva fallire. In un mercato europeo e mondiale competitivo, anche le grandi case possono falltre: la Leyland come la Renault, la Volkswagen come la Fiat o la Chrysler. Questa risposta, breve e amara, reclama però la risposta lunga: perché la Leyland, coacervo di quasi tutte le fabbriche inglesi d'auto, ha cessato d'essere competitiva? O forse non lo è mal stata, e si è rivelata tale soltanto dopo che si è trovata ad agire In un mercato non più protetto, nel mercato Cee anziché nel mercato inglese chiuso? Gli esperti con cut ho parlato, come Graham Turner. che è lo .storico» della Leyland. o John Barber. che ne è stato il vicepresidente fino al 1975. o David Andrews, che lo è oggi, attribuiscono al fattore Cee un'importanza limitata; e hanno ragione, quando dicono che non è stato l'ingresso dell'Inghilterra nella Comunità all'Inizio degli Anni 70 a mettere in crisi la Leyland. perché la crisi era Incominciata già molto tempo prima, fino dalla fine degli Anni Cinquanta. Due rivali Ma quello che ha pesato negativamente sull'industria automobiltstica inglese, fin dagli Anni Cinquanta, è stato proprio l'assenza della prospettiva europea. E'negli Anni 50 che vanno cercate le radici della crisi, è allora che le fabbriche d'auto che poi sono confluite nella Leyland hanno incominciato a perdere terreno e mercati. E è certo che la mancanza della .minaccia» (e speranza) europea ha allora aggravato risolasionismo e il provincialismo, e quindi il ritardo dell'industria inglese. Tutti gli altri erano già sul chi vive, preoccupati e attivi: vent'anni prima degli inglesi. Che sia andata cosi mi pare confermato dall'analisi che, della crisi della Leyland, fa John Barber. che lasciò la Ford per la Leyland (ma si considera ancor oggi un .Ford man-), quando Lord Stokes stava per comprare, nel 1968, la British Motor Corporation. Stokes produceva già, alla Leyland, splendidi autocarri; e aveva comprato sette anni prima due marche d'auto di qualità, la Triumph e la Rover. Acquistò la BMC per insistenza del premier laborista Wilson. La BMC era nata 17 anni prima, nel 1951, dalla fusione delle due grandi rivali: Austin (Birmingham) e Morris (Oxford); poi aveva rilevato anche la Riley e la Wolseley (oggi defunte), la MG, la Jaguar e la Daimler. Questo mondo composito e diseguale apparve a John Barber, quando divenne il numero due della nuova Leyland, come un colosso dal piedi d'argilla: la BMC stava già perdendo quote di mercato. Le cause della debolezza, che si esprimeva nel calo relativo delle vendite, e in una crisi di cassa, erano soprattutto due. Anzitutto, il gigante Leyland era la somma di tante unità e identità diverse, tutte mal fuse tra loro: dopo 17 anni era ancora vivo l'antagonismo tra Birmingham e Oxford, tra .uomini Austine .uomini Morris-. Questa causa lontana della crisi è ancora operante oggi, e me ne parla a lungo David Andrews: la Leyland «non è cresciuta organicamente, come la Fiat o la Volkswagen, è una difficile coalizione di culture e società industriali rivali, di prodotti duplicati o quintuplicati». Solo il nuovo piano Edwardes. chiudendo 13 fabbriche su più di 30. creerebbe una società finalmente unitaria. La seconda ragione della debolezza della Leyland sta in quello che Barber definisce «il provincialismo delle Midlands». L'Inghilterra è la madre patria dell'industria moderna. le Midlands sono il cuore dell'industria britannica. Longbridge. sede della Austin, è il cuore delle Midlands. E Longbridge. dice Barber. ..guardava solo a se stessa». Non era «market oriented», non si preoccupava del mercato, pensava che il mercato avrebbe comprato necessariamente i prodotti di Longbridge: gli ingegneri «ne sapevano di più» dei venditori e dei clienti. Se gli si faceva notare: a Torino, o a Detroit, le cose si fanno così, rispondevano: a Longbridge facciamo a modo nostro. «In un'industria In cui tutti stanno continuamente a guardare quello che fanno gli altri, e a chiedersi che cosa vuole il cliente, dice Barber, a Longbridge non sapevano nulla degli altri e non gliene importava niente, perché si ritenevano troppo superiori». Questo stato d'animo si trovò sottoposto troppo tardi alla -sfidaeuropea». Graham Turner. in base a un'analisi di questo tipo, dice che i principali responsabili della crisi della Leyland furono i managers, non gli operai: «Nei 17 anni tra la fusione AustlnMorris e l'acquisto della BMC da parte della Leyland, la BMC seppe produrre una sola auto vincente, la Mini: poi più nessuna». C'era, a Birmingham e ad Oxford, troppo disprezzo per lo styllng e troppo -operaismo-; la BMC assumeva pochissimi laureati, voleva che i suoi managers avessero «le mani sporche di grasso»; erano ottimi meccanici, ma con poca immaginazione. Negli Anni 50 e 60 investirono pochissimo, e alla fine si ritrovarono con impianti arcaici e inefficienti. Quando Stokes comprò la BMC, nel 1968, si trovò di fronte a una grande scarsità di liquidi, con le vendite in calare, e pochissimi progetti di auto nuove. Per di più, dovette dedicare due anni a uno straziante negoziato per eliminare il cottimo. Il cottimo, come praticato alla BMC, era uno straordinario sistema di pagamento -a pezzo- fpleceworkv. Ogni pezzo prodotto aveva la sua tariffa, gli operai erano come tanti subappaltatori, quando avevano fatto il loro numero di pezzi, se non avevano più voglia di lavorare, se ne andavano anche se erano le tre del pomeriggio. Quando nasceva un nuovo modello si dovevano ridiscutere le tariffe di migliaia di pezzi, c'erano agitazioni e scioperi a non finire. «Le officine della BMC, dice Barber, erano fabbriche senza capi, senza gerarchia, senza disciplina». Ognuno faceva quello che voleva: c'era stata di fatto una «presa di potere» da parte dei delegati di reparto, gli «shop ste- ward». Ancora oggi, Andrews attribuisce alla «mancanza di disciplina» la debolezza fondamentale della Leyland. «Quando 1 nostri operai lavorano, dice Andrews, lavorano come nel Continente. Ma ci sono le discontinuità (l famosi teabreaks;. La supervisione del lavoro è più debole: in Belgio, in un nostro impianto, produciamo di più perché non ci sono le stesse discontinuità. Così pure, abbiamo un numero altissimo di vertenze non ufficiali, a carico nostro e dei fornitori: per questo dobbiamo mantenere scorte elevatissime, rinnoviamo 11 magazzino cinque volte l'anno, in Germania lo rinnovano tre volte, la differenza ci costa 200 milioni di sterline l'anno. Abbiamo poco assenteismo, costi salariali e sociali forse minori: la Gran Bretagna sarebbe ancora un buon posto per investire; ma gl'investitori americani con cui parlo sono scoraggiati dalle nostre relazioni sindacali». L'indisciplina, la conflittualità selvaggia, lo strapotere sindacale appaiono ad alcuni come la causa prima della inferiorità della Leyland, e della crisi che minaccia oggi 164 mila posti di lavoro (e altri 250 mila -a monte- e -a valle-). In realtà vi è un circolo vizioso tra la poca produttività, gli scarsi profitti e investimenti, la povertà della gamma di modelli, il mancato rinnovamento degli impianti: è difficile dire quale, tra i motivi originari della crisi, abbia avuto il maggior peso. E' altrettanto difficile indicare il giorno ed anno in cui la crisi ebbe inizio, dire: ecco, fu allora che venne commesso il primo errore che mise in moto il meccanismo della decadenza della Leyland. Anche l'aumento del petrolio nel 1973 non fece che rivelare clamorosamente un'inferiorità che già c'era. Arroganza La verità è che, in casi come questo, quando ci si accorge degli sbagli commessi, delle leggerezze, degli atti di arroganza, del costo della conflittualità esasperata, può essere troppo tardi per riparare. Nel caso della Leyland, può darsi che la -pioggia di sterline- (pubbliche) di questi anni arresti la decadenza. Sulla bontà del piano di razionalizzazione di Edwardes i pareri sono discordi: alcuni pensano che avrà successo, e che anche «una casa automobilistica da un milione» possa sopravvivere nel mercato spietato degli Anni Ottanta, alla concorrenza con le «case da due milioni»: l'alleanza con la giapponese Honda, che fornirà subito un primo modello di auto media, può essere utile. Ma alcuni esperti pensano che anche il piano Edwardes fallirà, come iprecedenti. Quando si è in concorrenza con rivali forti, che hanno altre abitudini di lavoro e minore conflittualità, le abitudini comode adottate da alcuni Paesi in settori produttivi non esposti alla concorrenza estera (l'immenso settore terziario e pubblico) possono indebolire anche i settori industriali, ed essere fatali. Se per un po' non lo sono, è perché «paga lo Stato», cioè tutti i cittadini. Ma allora la decadenza è soltanto mascherata e rischia di esplodere un poco più avanti nel tempo, in modo ancora più catastrofico. La lezione della Leyland può forse servire ad altri, che coltivano ancora i sogni del benessere gratis. Arrigo Levi