Il mito è beffato da un pazzo Orfeo di Massimo Mila

Il mito è beffato da un pazzo Orfeo BILANCIO DELLA BIENNALE MUSICA Il mito è beffato da un pazzo Orfeo DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE VENEZIA — Mentre le bande più ingombranti dei turisti internazionali cominciano a ritirarsi dalla laguna, il Festival di Musica Contemporanea della Biennale si avvia verso la conclusione, di poco procrastinata dal rinvio a martedì prossimo dell'opera nuova, Prometeo liberato, del giovane Francesco Carluccio. Il bilancio che è ormai possibile trarne è, tutto sommato, positivo: per un mese siamo stati attirati a Venezia da promesse di musica che, mantenute o meno, valevano il viaggio. Sembrava d'essere tornati ai vecchi tempi del Festival quando lo organizzava Labroca. Bel progresso — si dirà — esser tornati indietro di dodici anni! Già, ma il fatto è che nei dodici anni intercorsi, di musica non c'è stato praticamente niente, sia che questo niente fosse posto sotto il segno del dissenso, sia che fosse posto sotto il segno del Vietnam, argomenti sui quali ognuno di noi ha le sue opinioni e non viene certo a farsele suggerire dalla Biennale. Per dire il vero, anche il pretesto sotto cui era collocato il nutrito programma messo insieme con tanta passione e competenza da Mario Messina, non è che ci persuadesse molto: «Convivenze di musica e mitologia». Bòh! Coi tempi che corrono, con le Br che ci azzoppano e ci ammazzano, con la crisi energetica, col Salt 2 e il riarmo della Nato, coi Sindona e i Crociani che trafugano all'estero valanghe di miliardi, chi se ne importa delle mitologie? Non trovavamo detto chiaro, né nelle dichiarazioni di Messinis, né nel volume sull'argomento, curato da Giovanni Morelli, che per la ragione umana l'unico rapporto possibile coi miti è di guerra senza quartiere: combatterli, distruggerli, sterminarli. I miti sono oppio dell'intelletto: una droga peggiore che l'eroina. Fortunatamente questo mes_ saggio, reticente nell'impostazione generale del Festival, alcune delle opere eseguite si sono incaricate di portarlo. Già l'opera di Sciarrino non era tenera verso i miti, almeno quelli contemporanei. E la cara Treemonisha del rag-man Scott Joplin si è rivelata una ingenua e animosa battaglia contro le superstizioni che affliggono la gente di colore in America e ne ostacolano il progresso. Ma la più allegra, quasi offenbachiana beffa contro miti e mitologia la porta questo pazzo Orfeo d'un oscuro operista veneziano Antonio Sartori, vissuto fra il 1620 circa e il 1681, sullo strampalato libretto di Aurelio Aureli. Con barocca stravaganza costui fa di Orfeo non il solito pastore, bensì un principe, signore, semmai, di pastori, dimorante in uno splendido palazzo, «illuminato durante la notte per le sue nozze con Euridice». Me già fin d'ora Orfeo è furiosamente geloso della sposa, e sospetta che se la intenda con suo fratello Aristeo. Costui, infatti, spasima per la neocognata, e trascura la bella Autonoe. Siccome Euridice s'intromette per buon cuore a riconciliarli, ne nascon equivoci del tipo Desdemona - Cassio -' Otello, per cui Orfeo ha motivo di confermarsi nei suoi sospetti, e come niente assolda un killer, il pastore Orillo, per far fuori Euridice. Costui la apposta nel bosco, ma il solito serpente lo esenta dall'odioso incarico. Allora Orfeo fa il suo bravo lamento, secondo copione, poi scende negli Inferi a riscattare col canto la cara sposa, e la perde per l'incauto sguardo durante il viaggio di ritomo. A tutto questo ribaltamento del mito di Orfeo, esposto in versi che non stanno né in cielo né in terra (almeno nell'avventurosa impaginazione usata nel programma della Biennale) si' mescolano storie parallele, di Ercole e Achille che mettono il loro valore a servizio delle belle sventurate, e ammirano l'avvenenza di Autonoe con esclamazioni da vitelloni: «Che bellezza! — Che vaghezza! — Che pupille! — Che aspetto! — Che brio! — Che vaga parvenza!». La vecchia mezzana Erinda si sdilinquisce per tutti gli uomini che le capitano a tiro e, molto brechtianamente, non crede alle proteste di Autonoe che vorrebbe morto il crudo Aristeo: «Ogni donna alla fine Vuole la carne umana, viva e non morta». Non meno cinico Esculapio, quasi una prefigurazione di Don Alfonso in Così fan tutte, quando disapprova il dolore di Orfeo: «Anzi dovrà ^vivere lieto, e non triste, Che là perdita della moglie è un grande acquisto. Piangere la moglie perduta, Folli sposi, è vanità; Quando il Fato a voi la toglie Vi dà il ciel la libertà». Quando Autonoe in lacrime rinfaccia ad Aristeo le sue promesse, costui replica in perfetto stile da stupratore dei Parioli: «Che Imeneo? che rapito tOnore ti sogni? gioie volontarie 'in dono mi concedesti, E se io 'godei tu più di me godesti». Il pastore Orillo, mentre ansima a seguire il centauro Chirone, pi raccomanda: «Con te verrò; ma sappi Che io ho solo due piedi, e che tu bai quattro zampe». L'opera si chiude con l'apparizione della dea ex machina Teti, che viene a prendersi suo figlio Achille per portarlo al riparo e imboscarlo dalla guerra di Troia. Su questa carnevalata barocca il Sartorio ha disteso una musica dove la nobiltà del recitativo monteverdiano comincia ormai a raggrinzirsi in formule stereotipate, a favore d'un diluvio di arie o ariette, aperte alle incipienti delizie del belcanto. La musica del primo atto è francamente generica e piuttosto noiosa, di livello niente più che artigianale. Ma nei due atti seguenti si lascia a poco a poco coinvolgere nell'azione e dà luogo ad alcune belle arie, anche di vasto respiro, per esempio quella di Achille innamorato, su basso continuo appena percettibile, e quella di Chirone su accompagnamento saltellante di mandolino o arpicordo. Nei recitativi dei due personaggi gravi, il centauro Chirone e il saggio Esculapio, par di avvertire ancora echi sbiaditi del Seneca monteverdiano (e che sollievo, in mezzo a tanto imperversare di falsettoni e di voci femminili in personaggi maschili, le sane voci di basso di Andrew W. Schulze e di Pedro Liendo!). Naturalmente per questo tipo di belcanto ci vorrebbero voci favolose come quelle che — si dice — nel Seicento si trovavano ad ogni angolo di strada. Gli interpreti dello spettacolo andato ora in scena nel restaurato e graziosissimo Teatro Goldoni, sotto la guida di Re¬ né Clemencic, un esperto di musica medioevale e barocca, che porta qui il suo specializzato gruppo strumentale, suppliscano a qualità d'eccezione con la studiosissima applicazione e la cognizione stilistica. Anche se non sempre ci riescono, si' sente che sanno bene quel che devono fare. , Sergio Vartolo è Orfeo, un mi-' sto indefinibile tra tenore leggerissimo e soprano; Pctyra Grigorova sostiene le parti di Euridice e di Teti; Gerard Lente quella di Aristeo, ma sembra, per voce e aspetto, assolutamente una donna; Ana Higueras Aragón è Autonoe, che risulta una delle parti più importanti; lo Schulze, oltre a Chirone, fa anche un'apparizione di Bacco, circondato da belle fanciulle discinte; Henri Ledroit è un atletico Achille, dall'esile voce di falsetto, e con Kurt Spanier, panciuto Ercole, forma una coppia comica di, gusto seicentesco; non meno buffo Mieczyslaw Antoniak nella parte della vogliosa Erinda, che appunta senili brame) sul pastore-killer Orillo, sostenuto da Aida Baghramian, la quale mette in mostra, da un abito maschile opportunamente bucato, un bel paio di attributi femminili. Lo spettacolo realizzato da Giancarlo Cobelli è molto bel-' lo: il fasto barocco reinterpretato dal gusto moderno e sottilmente impastato di erotismo, nella confusione di una gran confusione transessuale. La scena di Lauro Crisman isola un ampio cerchio sollevato sul palcoscenico, entro il quale, come in una sfera di acquario, i personaggi agiscono paludati in solenni abiti, mentre i mimifiguranti che raffigurano servi1 di scena, e si suppongono negri, esibiscono flessuose anatomie, ricoperte soltanto dt' un'accurata verniciatura in nero, a meno che si tratti d'una calzamaglia assolutamente impercettibile. Successo e applausi: certamente uno spettacolo che fa onore a questa Biennale-Musica e premia l'iniziativa sagace di Mario Messinis. A patto che non ci si venga a parlare di Antonio Sartorio come d'un secondo Monteverdi, ìì Massimo Mila

Luoghi citati: America, Teti, Venezia, Vietnam