Roma rivuole il suo fiume

Roma rivuole il suo fiume SALVARE IL TEVERE MALATO Roma rivuole il suo fiume Ci voleva la mostra allestita ' a Castel Sant'Angelo dal Comune e da Italia Nostra per sapere che cosa significa II Tevere scatenato. Si credeva che questa espressione, sbandierata su striscioni e manifesti, alludesse al fragoroso tripudio testé concluso: stands lungo le rive e bancarelle sui ponti, complessi jazz, clown; e cantautori, luci riflesse nell'acqua e riflettori a raggi tricolori; scippi e immondizie in proporzione alla calca. E invece no: è il titolo d'un volumetto uscito nel 700 in polemica con una pubblicazione del 1663, nella quale l'abate F.M. Bernini deplorava che il libero corso delle acque fosse frenato da palizzate per arginare le piene e impedire l'erosione delle rive, e dai mulini sotto i ponti. Funzionarono fino al 70; li aveva inventati Belisario, assediato da Vitige nell'Urbe nel 538 d.C, disponendo le mole tra due barche appaiate via via lungo il corso del fiume, perché i Goti avevano tagliato tutti gli acquedotti. Gli autori della mostra non si sono contentati di fornire i dati fisici e storici del fiume — volume e regime delle acque, flora, fauna, navigabilità, opere d'arte ispirate ad esso, bandi pontifici ecc. ecc. e, soprattutto, inquinamento — ma progettano di «scatenare» effettivamente il Tevere, e cioè di ristabilire un rapporto confidenziale tra esso e i romani, utilizzandone le aree suburbane per impianti sportivi e giardini. lì fiume infatti, tranne che per i canottieri, è estraneo alla vita della città, da quando muraglioni, dopo il 70, ne hanno fatto un canale impoetico, inglobando le mura aureliane ancora visibili in qualche tratto, da quando le ferrovie l'hanno soppiantato nella funzione di veicolo di scambi e comunicazioni. In tempi romani, i battelli lo risalivano fino a Città di Castello, ma nel Medioevo non si inoltravano che poche miglia a monte di Roma; il travertino per costruire . San Pietro scese su chiatte sul l'Aniene fino all'approdo sotto Castel Sant'Angelo e il porto di Ripa Grande fu attivo fino al 1938. Chi, tra coloro che guardano distrattamente l'acqua torpida e limacciosa dai ponti e dai Lungo Tevere intasati di macchine, conosce i suoi 400 km attraverso l'Umbria e l'Alto Lazio, dal Fumaiolo alla Val Tiberina? Villaggi medioevali erti su pareti di tufo, case che sembrano escrescenze della roccia: tra Todi e Orvieto, le Gole di Forello lo vedono scorrere tra pareti altissime di roccia e macchia fitta, verdissima, quasi fosse un fiume di montagna. E sono ancor meno quelli che ripensano al suo passato, al fatto che senza il Tevere non ci sarebbe stata Roma, alla sua presenza quasi in ogni episodio della storia dell'Urbe: dallo sbarco di Enea accolto da Evandro al prodigio dei gemelli che, come Mose, si arenarono incolumi nella loro cesta in un'ansa del fiume, dall'exploit sportivo di Clelia che lo traversò a nuoto, sfidando i mulinelli e la corrente che, nelle piene di primavera, trascina rami e tronchi e li deposita ai piloni dei ponti, alla scure di Orazio Coclite che tagliò il primo ponte, il Sublicio, per impedire che i nemici lo attraversassero e poi, mormorando una invocazione al dio fluviale, si gettò in acqua con tutta l'armatura. Il ponte fu la prima opera pubblica dopo la Cloaca Massima, trama bipolare espressiva del ruolo della città (che fu primo approdo, primo punto di transito tra le due rive, primo centro di scambi tra il Tirreno e l'interno e d'incontro tra le civiltà latine e l'Oriente); il ponte era tutto di legno: il pericolo di fulmini attratti dal ferro e il danno della ruggine, fattori naturali, diventarono norme rituali e magiche rigorose, fino a quando lo stesso Su blicio (sublica significa pilone o palo) fu rifatto di pietra; il secondo fu il Ponte Milvio e da esso si diramarono, nel III secolo a.G, la Via Flaminia e la Cassia, le due vie consolari verso Nord che però si tennero a distanza dall'alveo del fiume, soggetto a frequenti allaga menti. Ma le altre strade ciie fanno capo a esso, l'Ostiense, la Por tuense, la Tiberina, la Tiburtina, ricalcano piste millenarie di pastori. A Ponte Milvio è legato l'episodio raccontato nelle Catilinarie: la polizia appostata dal console sorprese, previo accordo, i diplomatici Galli che si fecero trovare le lettere cdsnlpinbccTcitcflpagqtqelbbfdcbeuLzrevasrdm comprovanti le trame eversive di Catilina; e ancor più famosa, la battaglia ad Saxa Rubra, nella quale per la prima volta la croce fu vista su i labari imperiali. La provenienza delle merci in epoca romana è attestata dai bolli impressi su le anfore: dai cumuli dei frammenti è sorto il colle poco lontano al Porto, Testaccio, il recipiente di terra cotta si chiama ancora «testo» in dialetto laziale e, per traslato, nel lessico militare sostituì caput= capo, per indicare la fragilità della scatola cranica. Le corporazioni dei navicularii hanno lasciato il nome del porto d'origine — dall'Africa alla Gallia, dalla Spagna all'Egeo — nei mosaici di Ostia; questa città assunse l'importanza di porto romano da quando l'aumento della stazza e della velatura rese impossibi-, le pilotare le navi fino all'Urbe; le merci allora, scaricate su battelli minori, erano trainate fino al porto fluviale da squadre di uomini lungo le rive, con le corde; più tardi, dai buoi. Documenti figurati, epigrafi e testi letterari (raccolti in un'opera monumentale da J. Le Gali) dimostrano la presenza del Tevere nella coscienza romana come fattore religioso: esso appare nell'aspetto d'un venerabile vegliardo a Enea addormentato, e cosi è rappresentato in bassorilievi innumerevoli e monete, come simbolo della potenza romana, fiume fatidico, contrapposto al Nilo, al Reno, al Danubio; gli si dedicavano offerte di pesci da parte dei pescatori e gli àuguri interpretavano le sue inondazioni come moniti inviati dagli dei, segni del loro corruccio e presagi; sono stati trovati ex voto di terracotta, parti del corpo che il fiume, elemento purificatore, potrà risanare. Spettava alle sue acque portare via dall'abitato, verso il mare, la contaminazione fisica e morale, gli oggetti impuri, i rei di parricidio, i politici con testati — da Caio Gracco a Eliogabalo —; c'era chi si sottoponeva alla penitenza del bagno nelle sue acque gelate dopo aver percorso le rive in ginocchio. E infine vi si gettavano, rito misterioso, gli Argei, pupazzi di vimini a forma umana, che forse rappresentavano simbolicamente i vecchi, da sopprimere o, se non altro, ac cantonare perché ingombranti e inutili; un concetto che forse sopravvive nel maligno proverbio dialettale: «La donna de quarantanni ■ buttala a fiume co' tutti li panni». Lidia Storoni

Persone citate: Bernini, Caio Gracco, Gallia, Goti, Lidia Storoni, Orazio Coclite, Ponte Milvio