Noi poveri ma consumisti di Andrea Barbato

Noi poveri ma consumisti Nomi e Cognomi di Andrea Barbato Noi poveri ma consumisti L'inflazione, la crisi energetica, l'aumento dei prezzi, le stangate fiscali e tariffarie hanno impoverito gli italiani e abbassato fortemente il tenore di vita di ciascuno di noi. L'economista potrà calcolare con esattezza quanto abbiamo perduto, in breve tempo, in termini di salari reali e di potere d'acquisto: ma anche senza diagrammi né parametri, non c'è chi non s'accorga che ciò che poteva avere con relativa facilità fino a qualche anno addietro è oggi diventato un lusso o un sacrificio. E non solo un'auto, una seconda casa, una vacanza: ma anche una cena con amici o un cappotto nuovo. E' probabilmente vero che, almeno fino al 1973, vivevamo al disopra dei nostri mezzi: è altrettanto vero che oggi stiamo perdendo rapidamente lo standard europeo, e forse paghiamo in misura addirittura sproporzionata le nostre spensieratezze del passato prossimo. L'italiano è più povero, dunque. Ma l'aspetto più paradossale di questa nuova povertà, un aspetto che probabilmente sfugge alle leggi economiche o almeno non vi trova il rifugio di una spiegazione, è questo: che la società in cui viviamo non ha smesso—pur ad un livello assai inferiore quantitativamente — d'essere qualitativamente consumistica. Negli anni dell'apparente prosperità o dell'illusorio benessere, era facile ed evidente leggere il carattere dissipatorio e spendaccione del nostro modo di vita. Alcuni se ne gloriavano, come di una solida furbizia o fortuna italica, che ci permetteva d'essere più agiati dei nostri vicini europei: meglio vestiti dei francesi, con case migliori degli inglesi, più viaggiatori dei tedeschi, miglior cibo, antiquariato di massa, porticcioli intasati di barche, un po' di prospelitàper tutti. Credevano di saper vivere, insomma, a dispetto della lugubre Mitteleuropa grigia e laboriosa. C'erano le denunce accorate di consu- mismo, ma esse sembravano alzarsi dai profeti di sventure, dai teorici di una società mistica o austera, che vedeva nel prodotto industriale il demonio morale, e nel bene di consumo la dissoluzione. E c'era, diagonalmente opposta, l'allegria keynesiana dei teorici dello sviluppo, produrre per consumare per spendere per investire per produrre, con buona pace di un'inflazione ritenuta fisiologica, controllabile, e ansi addirittura .sana-. Negli anni magri che sono seguiti, e che ancora attraversiamo, accade che la nostra collettiva vocazione consumistica non si sia attutita. E' vero, consumiamo meno beni, o almeno ci permettiamo meno lussi, perché disponiamo tutti di meno denaro, di denaro che vale meno e compra meno. Ma non per questo è cambiato il segno, la qualità. Anzi, si può dire che la .povertàabbia rafforzato il consumismo, poiché ne ha messo ancor più in luce le caratteristiche di spreco, di imprevidenza, di sventatezza, e quelle ancor più gravi di filosofia del possesso, di omogeneizzazione, di mercificazione. Se un nobile decaduto, che abbia dovuto privarsi delle sue terre e dei suoi redditi, continua a nutrire manie nobiliari, propositi di grandezza e desideri di apparenza, il suo decadimento sarà ancor più vistoso e patetico. L'italiano povero non è diventato austero. Talvolta si priva del necessario, ma non rinuncia al superfluo. La sua scala di valori rimane quella mercantile e velleitaria legata alle forme del consumo; un filetto di manzo, una maximoto o un golf di cachemire restano simboli di felicità e di successo, sia che li possiamo acquistare sia che ci limitiamo a desiderarli. La casa ha il tetto, ma non ha le fondamenta: e le fondamenta si chiamano servizi sociali, città non degradate, scuole, ospedali, assistenza agli anziani, e così via. Il trucco della memoria, la nostalgia, riuscirà a colorare di rimpianto il decennio dei Sessanta, e forse una parte del decennio dei Settanta, che invece resteranno — sotto molti aspetti — come gli anni più stolti della nostra storia, colorati di imprevidenza. Abbiamo dedicato tutte le nostre energie, confortati persino da teorie economiche e da pratiche politiche, ad inseguire il modello della società di massa, occidentalizzata, prodiga. E quel modello lo abbiamo raggiunto, nel senso che oggi siamo una società di massa, ma nel significato peggiore: la violenza dei rapporti, la massificazione dei gusti, la solitudine urbana, i riti della folla, la degradazione delle periferie, il conformismo, gli ingorghi stradali. / Altro che nuovo Rinascimento! E' come se, dal modello occidentale, avessimo prescelto il peggio: la brutalità sociale, i consumi pacchiani, il mito del denaro (tanto più mitico in quanto è sempre di meno), la cultura di gregge. E avessimo accuratamente tralasciato il meglio: il senso civico, la libertà individuale, lo spirito di invenzione. Le prediche non servono, sono patetiche e inutili. La povertà non è mal un rimedio, in qualche caso è una malattia salutare. Nel caso italiano, essa ha fatto risaltare ancor più il nostro sviluppo sbagliato.

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