Gli imputati dell' anonima seguono attenti e tesi la storia dei sequestri di Vincenzo Tessandori

Gli imputati dell' anonima seguono attenti e tesi la storia dei sequestri Il processo per i rapimenti di Montelera, Torielli e Baroni Gli imputati dell' anonima seguono attenti e tesi la storia dei sequestri Prendono appunti, discutono, consigliano i difensori e provocano interventi: sperano di far trionfare la «loro verità» - La mafia non ricusa gli avvocati, ma pretende successi DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE MILANO — Quante sono le verità sui sequestri di Pietro Torielli junior, Luigi Rossi di Montelera ed Emilio Baroni? Una soltanto per il tribunale che giudicò i presunti sequestratori, molti dei quali legati all'onorata società; molte per i difensori, che tentano di cancellare o modificare la sentenza del giudizio di primo grado. C'è un punto sul quale gli avvocati si batteranno a oltranza. Sosterranno che Pietro Torielli non è mai stato nella cella della fattoria di Calvenzano e grideranno che Luigi Rossi di Montelera non fu mai tenuto in vincoli nella segreta di Moncalieri, a cascina «Le palme», proprietà della famiglia Ugone. Non cercheranno di convincere la corte che l'industriale non fu mai a Treviglio soltanto perché gli uomini della Guardia di Finanza e i giudici Giuliano Turone e Giovanni Cai zzi trovarono il prigioniero proprio nella cascina presso Treviglio e perché la decenza ha limiti non valicabili. Il processo di secondo grado alla cosca mafiosa che faceva capo a Liggio non è ancora entrato nel vivo, l'udienza di ieri, seconda di una serie che si teme cospicua, è stata occupata dalla lettura della ricostruzione dei fatti: centinaia di pagine, un lavoro puntiglioso fatto dal giudice Giovanni Arcai. Oli imputati, soprattutto quelli a piede Ubero che hanno deciso di seguire di persona il dibattimento, sono attenti, prendono appunti, danno suggerimenti ai difensori, indicano spesso gli argomenti che, a loro parere, dovranno essere sottolineati. E per i patroni sarà un lavoro difficile, soprattutto per i legali «politici» Giannino Ouiso e Giuliano Spazzali, che difendono i frateli Taormina, carcerieri di Luigi Rossi di Montelera. Dovranno mutare linguaggio, scegliere con cura gli argomenti: la mafia non usa ricusare nessuno, come fanno i detenuti «politici», neppure quando è delusa, ma certo pretende successi. Parlando del clan, Oiuliano Spazzali nell'arringa di primo grado, pregevole tecnicamente ma poco credibile, aveva sostenuto: «La mafia è l'espressione di una classe al potere: poiché non si sono mai visti contadini al potere e poiché i Taormina sono contadini, significa che costoro non sono mafiosi». Ma la famiglia contadina Taormina, sostiene nel motivi d'appello l'avvocato Cosma A cani por a, codifensore, «un asburgico del foro di Palermo», come ama definirsi, non può aver commesso sequestri perché non ne aveva alcun bisogno. Scrive il legale: «/ Taormina, per successione paterna, posseggono in pieno centro abitato a Palermo, attigui ad una villa patrizia del Seicento ove abitano, ben 10 ettari circa di terreno coltivato ad agrumeto e un'area edificabilc ed edificata: valore due miliardi». Sono attenti alla ricostru- zlone, ora, gli imputati, e forse intravedono la possibilità di attenuare le pene, già non severe, irrogate nel primo grado. C'è In aula Giuseppe Ciulla, che qualcuno fra gli inquirenti vuole legato alle cosche palermitane, ma che si è «fatto un nome» qui al Nord, prima come protagonista di una serie di rapine a supermercati, poi perché coinvolto in questi sequestri «di grido». Fu assolto, in primo grado, ma in aula non si presentò perché in quei giorni era evaso. Chiuso 11 discorso per il sequestro Torielli, ormai non più «picciotto» ma «uomo d'onore», Ciulla è riuscito a farsi sospendere la pena per gli altri reati. Avrebbe dovuto scontare sette anni dietro le sbarre, la condanna gli era stata inflitta dalla Corte d'assise d'appello di Torino che aveva dimezzato la sentenza decisa nel primo grado. Aveva inviato per la sospensione della pena una documentazione medica ritenuta esauriente dalla corte torinese presieduta dal giudice Emilio Germano. Non avevano tenuto conto, quei giudici, di due fatti fondamentali: che Ciulla era un evaso, quindi latitante; che l'uomo si era ben guardato dal sottoporsi a una visita medico-legale. Pochi giorni dopo la decisione della corte, la procura generale di Torino aveva fatto ricorso alla Cassazione che, a sua volta, aveva cancellato la decisione di Germano. Ora Ciulla è alla sbarra, sicuro di sé, tranquillo. E' corpulento, ha l'aspetto deciso, porta occhiali da sole anche nell'incerta luce di una giornata grigia e sembra voler imitare il grande assente di questo dibattimento: Luciano Leggio, chiamato «Liggio». D'altra parte pare assai legato al «padrino», cosi almeno sospettano gli inquirenti: quando venne ucciso al bosco della Ficuzza, nel pressi di Corleone, il colonnello dei carabinieri Russo, e si pensò che il mandante fosse Liggio, anche Ciulla, che aveva appena agguantato la libertà generosamente concessa dalla Corte di assise d'appello e che si trovava, casualmente disse, a Palermo, venne interrogato dai carabinieri. Fu rilasciato. Vincenzo Tessandori