IL «DIAMO» DI HENRY D'IDEVILLE

IL «DIAMO» DI HENRY D'IDEVILLE IL «DIAMO» DI HENRY D'IDEVILLE Diplomatico francese alla corte di Pio IX 21 settembre 1864. L'ambasciatore di Napoleone HI a Roma, ancora capitale del Papa, non è neanche informato della firma, avvenuta il giorno precedente, della famosa Convenzione tra Francia e Regno d'Italia, quella che strapperà a Torino il ruolo di capitale e Io affiderà alla svogliata e reticente Firenze, tappa obbligata sulla via di Roma. L'intesa con Torino è stata raggiunta dalla diplomazia personale dell'Imperatore dei francesi: complici principali e sotterranei i moderati emiliani e toscani, da quel momento sempre condannati per «leso piemontesismo» (Torino non perdonerà mai ai dctronizzatorì della capitale subalpina). L'annotazione, sorprendente, è del segretario all'ambasciata francese presso la corte di Roma. Un «papalino» e un «legittimista» accanito e intemperante come Henry d'Ideville. Egli stenta a credere che l'Imperatore abbia osato tanto. «Firenze al posto di Torino, non ci capisco nulla». E poi: «Se re Vittorio Emanuele lascia Torino e il Piemonte, è un errore. Il suo piccolo regno, e le sue vecchie e buone province sono le sole a essergli devote. Si può mai ritrovare quello che si la scia e che si sacrifica?». E quasi con una nota di compiacimeli to: «Il telegrafo ci annunzia già una sommossa a Torino, questa città fra tutte pacifica e saggia». E poi d'Ideville è spaventato delle reazioni di Pio IX: papa sacerdotale, con un fondo ieratico, ma dal carattere — annota maliziosamente il diplomati co — «molto vivace, molto franco», incline, e lo si sa, alla collera. Uomo tutto d'un pezzo, d'Ideville, attaccato a un sistema di valori che la storia del suo tempo ha inesorabilmente condannato. Lo ritroviamo tale e quale come nelle pagine celebri de «Il re, il conte e la Rosi na», negli scorci del terzo volume di memoria e ricordi. Il «Diario diplomatico romano (1862-1866)» che si inserisce fra i due libri precedentemente usciti per i tipi dell'editore Longanesi (raccordato proprio a «I piemontesi a Roma») e li collega cronologicamente: completando così la descrizione degli avvenimenti che hanno accompagnato e quasi ritmato le tappe del processo unitario italiano. Curati, tutti, nella edizione italiana, con sottile e accorta penetrazione, da Guido Artom, lo studioso che riecheggia anche nel nome le tra dizioni del vecchio Piemonte risorgimentale e cavouriano. ★ * Segretario di legazione alla corte di Torino negli anni compresi fra il 1859 e il 1862, d'Ideville ha raggiunto Roma dopo l'avvento di Dreuyn de Lhuys alla guida del ministero degli Esteri di Napoleone HI. La nuova destinazione lo affascina; lo stato d'animo del giovane diplomatico di oltralpe è quello ideale per svolgere a palazzo Colonna, sede dell'ambasciata di Francia, un lavoro oscuro e modesto ma capillare e in profondità, illuminato dalla fastosa ed estenuata cornice della città del Papa. Il viaggio da Marsiglia a Pisa, sulla via di Roma, nel novembre 1862, gli consente appena di assistere ai riflessi della tragedia di Aspromonte, alla «sconfitta» di Garibaldi: il. condottiero cui l'ultra-monarchico conservatore non riconosce neppure virtù di comando, frutto di un mito un po' sud-americano e un po' britannico, simbolo di quei valori di iniziativa popolare e di democrazia dal basso che minano alla radice la sua visione clericale e legittimista, riflessa nella formula del «Trono e Altare». Con un accento di dispetto più che di stupore, d'Ideville rievoca nelle prime pagine del diario l'immagine dei gruppi di studenti armati e in uniforme garibaldina che sui lungomari della città toscana, davanti al¬ . l'albergo delle Tre Donzelle che accoglie Garibaldi ferito ad Aspromonte, montavano in servizio d'onore alla porta del grande infermo. «Il governo italiano non avrebbe potuto, senza pericolo, opponi a manifestazioni del genere — annota quasi a giustificare uno spettacolo altrimenti intollerabile al suo «cliché» rigoroso e inflessibile —. Il leone di Caprera, ferito e vinto, e a cui la ragione di Stato aveva imposto di concedere il perdono, era ancora più temibile e più popolare che nel passato. Strano Paese, strana epoca!». * ★ Strana epoca, ma soprattutto strano personaggio. L'ultimo volume del diario, ricco di spunti e di suggestioni, di immagini incisive e immediate, è frutto di un perfetto idillio fra il diplomatico d'Alvernia e la «società ideale» della Roma del Papa «assoluto e dispotico», che sembra potere arrestare il tempo e sfuggire allo spettro ovunque avanzante del liberalismo e del progresso. La città eterna, nella grandezza della sua storia trascorsa, nella eleganza e nella raffinatezza consumata dei salotti, nelle rituali passeggiate al Pincio dove da carrozza a carrozza si incontrano patriziato, cardinali, sovrani spodestati in esilio, nel colore autunnale delle feste e delle luminarie, nella solennità un po' esausta delle funzioni e delle cerimonie, esercita un'attrattiva che affiora costante fra le righe. Vicino alle posizioni oltranziste di Louis Veuillot, il pugnace difensore dell'integralismo cattolico nelle colonne dell'«Univers», d'Ideville rifiuterà con pari caparbietà la nuova realtà nazionale: parlerà di regno di Piemonte anziché di regno d'Italia, proiezione piemontese e unitaria di un'Italia federalista, molteplice, contraddittoria e caotica, assolutamente irriducibile a uno schema di unità. Non è uomo portato al compromesso, alla moderazione, alla conciliazione degli opposti; le scelte fra amici e nemici, al pari dei giudizi, sono rigide, intolleranti, quasi manichee. Nessun cedimento, nessuno spiraglio alla «libera Chiesa in Ubero Stato» del «buon Cavour», lo statista che pure aveva rievocato con una punta di commozione nel momento della morte. Nella capitale, frequenta l'aristocrazia «nera» dei Borghese, dei Salviati, degli Aldobrandini e dei Rospigliosi, ostili a qualsiasi transazione con l'Italia, e «disprezza» il «partito azzurro» degli «amici dell'Italia, dei liberali e degli scontenti». La fedeltà a Pio IX, al rispetto del «temporale», prevale sulla ragion di Stato, compreso lo Stato francese. Le pagine che registrano gli echi romani della Convenzione di settembre e del trasferimento della capitale da Torino a Firenze sono sotto questo profilo illuminanti. «Legittimo» è lo sdegno del Papa, tenuto all'oscuro della trattativa, al pari della imbarazzata legazione francese. «Quanto a me — scrive il 2 ottobre — se Parigi tradisse Roma chiederei il mio trasferi mento immediato, non volendo... assistere al triste spettacolo della caduta del Santo Padre... Considererei come una vergogna per il mio nome... far parte dell'ambasciata di Francia in un evento simile». La violenta reazione di Torino e gli incidenti del 22 settembre, che travolgono il ministero, gli fanno supporre o sperare che l'atto «ingeneroso» dell'Imperatore, il «grande cospiratore coronato», nasconda in realtà un'abile mossa calcolata: il rifiuto della ratifica da parte del parlamento italiano farebbe cadere l'accordo, aprendo la via all'antico disegno di confederazione italiana in tre Stati. Non circolano addirittura voci — che d'Ideville puntualmente registra, pur spnpmpclspas senza dar loro credito — di un passaggio alla Francia di Torino e Genova, sull'onda della protesta inscenata dal rabbioso municipalismo piemontese cui perfino i democratici ammiccano? Mancano al metodico scrivano l'intuizione e l'apertura di una mente politica. Gli sfugge il profondo significato del «Sillabo», nel dicembre del 1864, vera risposta del Pontefice alla Convenzione di settembre. Il diplomatico stravagante si stupisce dell'inquietudine suscitata negli stessi ambienti temporalisti e del rimprovero mosso a Pio LX di «non tenere alcun conto dei principi stabiliti da secoli». D'Ideville travisa l'esito della missione Vegezzi, per la copertura delle sedi episcopali vacanti e ne trasforma il fallimento, nella primavera del '65, in una apertura conciliatrice: «/ negoziati di Vegezzi hanno avuto successo, il concordato religioso sarà ristabilito». E' la stessa chiusura al mondo moderno che gli impedisce, appunto, di accettare lo Stato nazionale unitario, cui profetizza una durata non superiore a dieci anni, nella fede anacronistica e incrollabile di un ritorno al '48, alla grande confederazione italiana col Papa presidente e il re di Sardegna compensato con Lombardia e Veneto per la rinuncia allo scettro di Re d'Italia. Un disegno di cui parlava convinto nei giorni di Mentana. In odio a Garibaldi di cui contestava perfino la italianità. «Garibaldi cosi era convinto d'Ideville appartiene alla razza ligure sparsa in altri tempi su tutta la costiera marittima, da Barcellona fino a Genova». E in questo odio verso Garibaldi aveva un progenitore e un alleato in Proudhon. Giovanni Spadolini Venditore di anguria col banco in piazza, nella Roma del 1850 (Stampa dell'epoca)