Già 141 gli alpinisti che sono morti quest'estate per gravi imprudenze di Carlo Moriondo

Già 141 gli alpinisti che sono morti quest'estate per gravi imprudenze In settembre le Alpi ancora prese d'assalto da centinaia di appassionati Già 141 gli alpinisti che sono morti quest'estate per gravi imprudenze Solo in rari casi le sciagure causate da fatalità 'A Ferragosto300 persone sono salite sul Bianco Le cifre sono terrificanti, si leggono due volte con un senso di incredulità, con l'impressione che si tratti di un errore di stampa. Invece la realtà è proprio quella: finora, in questa stagione estiva, 141 persone sono morte in montagna, quasi il doppio dell'anno scorso. Evitiamo di proposito l'espressione «la montagna ha ucciso», poiché la montagna non uccide più che il fiume od il mare: è l'uomo che vi cerca la morte e se la procura con la sua inesperienza, con la sua scarsa attrezzatura od anche deliberatamente, per vincere una sfida. E la stagione delle sciagure non è ancora finita: settembre — che i meteorologi annunziano finalmente sereno e caldo — porterà fatalmente ad allungare la lugubre statistica dei morti in montagna. Morti in tutti i modi, anche i più assurdi dopo tanto insistere—da parte dei giornali, delle riviste, delle radio, delle tv — sulla necessità di precauzioni, di allenamenti, di autocontrollo. Parole gettate al vento. Sulla via normale di salita alla Tour Ronde, massiccio del Monte Bianco, una cordata scivola, nonostante i componenti avessero una perfetta attrezzatura di corda, piccozza e ramponi. Scivola e travolge le altre cordate: i morti sono dieci, numero pazzesco, in quella scalata che qualsiasi mediocre alpinista può e deve fare con la massima sicurezza. Ancora nel massiccio del Monte Bianco: due ragazzi, uno di diciassette, l'altro di quindici anni, partono disinvoltamente per salire in vetta lungo la via Major, che è una delle più lunghe se non delle più difficili: dopo poche ore uno piomba in un crepaccio, l'altro ha la fortuna di essere raggiunto e salvato dalle guide. La casistica può continuare, fino a quell'incredibile episodio avvenuto l'altro ieri nelle Alpi svizzere: una squadra di soldati raggiunge la vetta del Dom, si riunisce in gruppo per una foto, tutti insieme su una cornice di neve e ghiaccio, la quale naturalmente sprofonda sotto il lo¬ ro peso e li trascina in un abisso di mille metri. Sembra che i sei fossero legati in una sola cordata: se è cosi, è stata un'imprevidenza folle, lo sanno tutti che il numero massimo di una cordata, per elementari motivi di sicurezza e di agilità, non deve essere superiore a tre. E forse nessuno aveva detto loro che proprio in vetta, sovente, si annida il pericolo più grave: una cornice, che magari sporge di qualche metro sul vuoto, lavorata, bulinata dal vento, che sembra non attendere che un leggero aumento di peso per sfasciarsie crollare... Eppure fermarsi in un luogo di passaggio come il Colle del Gigante o sulla soglia di qualche rifugio per dare un'occhiata a chi parte ed a chi arriva ed esprimere quelle critiche o quei consigli che sembrano doverosi da parte di chi ha ormai lunghissima esperienza in montagna, significa passare per vecchi barbogi, per incompetenti, per paurosi. Mentre chi va al mare cerca gli ultimi modelli di pinne o di fucili subacquei, chi va in montagna sembra autorizzato ad attrezzarsi alla meno peggio: corde vecchie (quanti sanno che una corda di nailon, anche se mai adoperata, dopo cinque o sei anni ha perso buona parte della propria robustezza?), ramponi portati sulla sommità del sacco, pronti ad infilarsi — in caso di caduta—dentro la nuca; indumenti leggeri, tipo spiaggia, e soprattutto la beata certezza — la stessa che infondeva coraggio all'immortale Tartarin di Tarascona — che i pericoli siano soltanto propaganda, invenzioni dei giornali. Paradossalmente, una buona parte di colpa ce l'ha la civiltà del benessere. Un tempo chi andava In montagna trovava duro: il treno, la lunga salita verso il rifugio erano un acclimatamento morale e fisico che disponeva al rispetto della montagna, davano il senso preciso di entrare in un mondo nuovo, diverso, in cui vigevano regole nuove, diverse. Ora si lascia la scrivania, si salta in macchina, si acchiappa una funivia, si è ai tremila metri. SI, forse si soffia un pochino quando si sale sacco in spalla, ma non importa: tanto, si andrà più forte in discesa. Ed è proprio in discesa, quando si è stanchi, quando l'attenzione allenta i freni, quando si ha fretta di arrivare all'ultima corsa della funivia, che capitano i disastri. Dopo di che partono elicotteri (360 le missioni in montagna, da gennaio ad oggi), partono le guide, partono gli uomini del soccorso alpino: e sovente non riportano a valle che salme sfracellate. Non vorremmo essere fraintesi. Non intendiamo affatto distogliere i giovani dai ghiacciai e dalle rocce per invitarli a cercare genziane e lamponi. Sappiamo perfettamente che l'alpinismo è e sarà pericolo, anche per i più esperti, anche per le guide migliori (da Ottoz a Gobbi, da Panei a Viotto, l'elenco delle guide cadute in montagna, anche in palestra, è molto lungo...). E' legittimo che molti compiano scalate proprio perché sono pericolose, come sfida alla montagna, come affermazione di se stessi, come evasione da un mondo che trovano grigio e frustrante. Ammettiamo che, fatte le dovute proporzioni, l'alpinismo può essere considerato persino una droga, da cui, una volta afferrati, non si può più fuggire. Ma con la differenza almeno che il tossicomane sa di distruggersi deliberatamente, mentre il sestogradista, lo scalatore del verticale al limite delle possibilità umane lotta per sopravvivere, per rientrare a valle, soprattutto — se vogliamo — per poter tornare ancora sulle sue montagne, a rischiare un'altra volta. Ma tutto ciò non significa buttarsi allo sbaraglio, giocare con la morte come se ogni escursione fosse una roulette russa, imporre angosce e lacrime alla famiglia. Il limite del rischio è un fatto troppo personale per trovare una definizione collettiva. Nell'assoluta impossibilità di leggi ridicolmente restrittive, ognuno deve tro¬ vare dentro di sé la forza ed il coraggio di negarsi a certi rischi, quando li giudica superiori alle proprie forze, alla propria esperienza. Non c'è altro da fare, che insistere su questo tipo di educazione. Dopo di che, fatalmente, attendiamo altre vittime. Alla metà di agosto sulla vetta del Monte Bianco sono state contate trecento persone, in un incredibile va e vieni, in un confuso intrecciarsi di corde e di linguaggi. Non tutti erano forti alpinisti, di certo: ma volete forse imporre anche a loro un esame ed una patente, in un mondo già cosi irreggimentato? Carlo Moriondo

Persone citate: Ottoz, Panei, Viotto