Trieste e l'imperatore

Trieste e l'imperatore A PROPOSITO DEL «CASO CERGOLY» Trieste e l'imperatore E allora parliamone di questo Cergoly, visto che non passa giorno senza che qualcuno te ne chieda notizia, discorriamo di questo «caso» che è esploso alla fine dell'estate con la complicità dei rotocalchi e della morta stagione editoriale. Con quel nome, Carolus L. Cergoly, e con quel titolo, // complesso dell'imperatore (ed. Mondadori), si poteva pensare a un ennesimo frutto del romanzo neostorico che ha avuto i suoi ultimi esempi nei libri di Chiusano e di Piccioli, si poteva risalire, per via di suggestione, addirittura al Sacro Romano Impero. Macché, le ascendenze legittimistiche di Cergoly sono meno remote, pur innestandosi in filoni anche più proficui. L'imperatore in parola è Francesco Giuseppe d'Asburgo, il Cecco Beppe diminutivo del nazionalismo italiano dalla battaglia di Solferino all'Isonzo, acqua passata. Ma non del tutto se Cergoly, triestino del 1908, cerca ancora di imporci l'imperatore come simbolo attivo, offrendoci, attraverso l'osservatorio di Trieste, un'altra immagine della Cacania di Musil, dell'Austria felix di Roth. Davvero, secondo la profezia di Roth, «l'Imperatore è come un astro spentosi e morto da secoli, dal quale continuano a giungere attraverso il tempo i raggi irradiati chissà quando»; ma è ancora più vero che, con quei nomi che abbiamo fatto, tutti i giochi sembrano ormai conclusi, sulla materia non resta molto da dire. Ecco allora Cergoly pigliarla alla lontana, crearsi una sua mitologia più pasticciona che sincretistica, in forza della quale il coboldo Hinzelmann, lasciati gli spazi nordici, scende a Trieste eleggendola come sua residenza. Dagli scaffali di una libreria, dai cornicioni dei palazzi, dalle prode dei canali spia la vita di una città in cui settentrione e meridione troverebbero il loro perfetto punto di fusione. Si alloga, ad un certo momento, nella casa di Stanislaus Joyce, riesce a cogliere dal buco della serratura qualche lepida battuta del grande James, eletto chissà perché a nume tutelare del romanzo. In tutta questa prima parte è il mito che domina, sia pure mediato dalle parole di uno gnomo bizzarro e pettegolo, e quindi garante di un minimo distacco dell'autore e del lettore. Il mito di Trieste «la gentilissima e fedelissima città immediata all'Impero (dove) il cielo è tutto di un azzurro adriatico di un azzurro che ricorda l'azzurro degli occhi dell'Imperatore azzurri come la porcellana». Ci troviamo nell'ombelico di una Mitteleuropa dove regnano l'ordine e la tolleranza, dove l'attaccamento alla vita si esprime soprattutto nella buona tavola, nella pigrizia sensuale. Trieste prende direttamente luce da Vienna, tutto sembra ubbidire alle cadenze immutabili di un Impero che dura ormai da sei secoli. Il passo del mite gendarme per le strade, lo zelo dei funzionari, le parate dei dragoni dall'elmo luccicante, i volteggi dei nobili sulle cavalle di Lipizza, le «relazioni» clandestine, che scompigliano norme e rimescolano ceti, gli indugi al caffè, nel profumo caldo dei pasticcini e della birra, tanta birra. Alta su tutto la figura, condiscendente più che vigilante, dell'imperatore dalla barba bipartita che, pur incarnando con la sua imbalsamata presenza l'antichità della dinastia, desidera apparire come il primo impiegato dello Stato, che tempera la pietà e la mortificazione religiosa cogli intrattenimenti d'alcova. Queste cose Cergoly le racconta con una prosa che dà l'idea d'una serie di lasse o brevi raggruppamenti di versi, che talvolta hanno un'intonazione biblica, ma più spesso si accontentano di iterazioni e onomatopee da poesia popolare. Cergoly fa gran caso di questo stile un po' montato, tutta schiuma e poca birra, uno stile che definisce «senza manette» soprattutto perché, adottando in certo qual modo una linea mediana della stravaganza, abolisce sistematicamente le virgole e i punti e virgola (non i punti fermi) costringendo il lettore a inchiodarli mentalmente qua e là. La parte più interessante di questo disuguale centone è all'incirca la seconda, dove gli sparsi presagi di dissoluzione vengono a precisarsi. L'impero sovrannazionale, dove «tutti avevano il diritto anzi l'obbligo di esprimersi nella lingua che la madre gli aveva messo in bocca», è scosso e poi travolto dai nazionalismi impazienti e feroci. «Die Katastrophe», il grande crollo, viene raccontato, come si conviene alle età del ferro e dell'argilla, non più dal coboldo ma attraverso le memorie dei nostalgici gialloncri. E certo muove a curiosità e conserva un certo valore immunizzante la descrizione di una Trieste (ombre corrucciate di Slataper, dei fratelli Stuparich) percorsa da irredentisti manganellatori, invasa da soldati tracotanti. Al di là, s'intende, di tutte [esemplificazioni e i deliberati rovesciamenti. L'impero si dissolve, preceduto dalla morte dell'imperatore e accompagnato da catene di suicidi. C'è la via libera per gli antagonismi etnici e razziali, per una nuova guerra, per internazionalismi che appaiono soltanto la caricatura di una grande idea. L'imperatore continua allora a sopravvivere come immagine non rimossa, tra delusione e rimorso. Ora, queste cose sostanzialmente le abbiamo già lette, semmai andremo a rileggerle in venti pagine della Milleduesima notte di Roth. Ma non sta qui il punto. Esiste una legittimità a riprendere queste vecchie storie dalla sponda triestina, esiste perfino una necessità, qualora si pensi alla funzione periferica e subalterna, alla stagnazione di Trieste, amputata del retroterra naturale, del suo vitale fiotto di mescidazioni e di traffici. Quel che non convince è lo stile, l'assenza di un respiro narrativo e, per altro verso, di una sufficiente concentrazione poematica. Male ha fatto, Cergoly, ad uscire dalla sua giusta misura, che è quella dello scrittore di plaquettes, meno adatto a Mondadori che a Scheiwiller. Cergoly scrittore di plaquettes e di poesie. Questa assai discutibile operazione ha un merito del tutto involontario, di stanare cioè dall'oscurità un poeta capace di declinare con sapienza di lingua e forte ta glio espressivo epitaffi civili ed amori sanguigni, stupori di paesaggio e nostalgie per tempi di una volta, radicati nel sangue e nell'infanzia. Andate a leggerlo in Ponterosso (ed Guanda): «Radice ungaro slava - Punta de spada - La ga sepolta - Fonda - In humus austriaco». E ancora, in un altro tratto della sua autobiografia poetica: «La scola de mi ■ Ve via Fontana ■ Dirimpetto ai gendarmi Larga de ali - Su l'arco del por- tMfgnv ton - L'aquila a due teste M'incantava...». Detto senza false pretese nell'affabile lingua triestina, senza teorizzazioni ormai usurate e defunte, con verità. Lorenzo Mondo Francesco Giuseppe d'Austria visto da Levine (Copyright N.Y. Revlew of Books. Opera Mundi e per l'Italia -La Stampa.)