Così affondò l'Andrea Doria di Furio Colombo

Così affondò l'Andrea Doria DOPO VENTITRÉ' ANNI, UN'INCHIESTA SULL'ALLUCINANTE TRAGEDIA Così affondò l'Andrea Doria Il drammatico scontro tra la nave italiana e il mercantile Stockholm ricostruito ora per ora dallo scrittore americano William Hoffer - Un insieme di eroismi e di viltà, viaggiatori abbandonati a se stessi, equipaggio diviso tra dovere e terrore - Il comandante Calamai, un uomo chiuso nel silenzio ma pronto a morire - Ha sbagliato la manovra finale? NEW YORK — William Hoffer non si intende di navi. Eppure è riuscito, da solo, con una ricerca accanita, anni di lavoro, e un viaggio allucinante in migliaia di memorie private, a costruire l'unico attendibile processo a quel fatto grave e mai dimenticato che è stato l'affondamento dell'Andrea. Doria in una notte di nebbia del luglio 1956 al largo dell'isola di Nantuckett, vicino a Long Island. Hoffer, qualcuno ricorderà, era stato anni fa l'autore di un libro e l'ispiratore di un film di immenso successo (almeno in America): Midnlght Express. Adesso William Hoffer si butta su un'altra tragedia, l'analizza con lo stesso metodo — che potrebbe essere quello di un medico appassionato della patologia della vita —, produce un libro che si intitola Saved (Salvi). E certo ne uscirà un clamore di polemiche e un film da grandi incassi. Per esempio vorrei proporre che questo libro di Hoffer è un buon documento, quasi una rivelazione antropologica, su certi aspetti del comportamento italiano in una situazione di stress disperante. La domanda che incalza con un ritmo ossessivo in queste pagine, la domanda die trasforma una tragedia grave, ma in fondo una tragedia -qualunque-!, in un grande processo è questa: quando un pazzesco e inaspettato urto della vita sbalza un gruppo di uomini fuori della routine quotidiana (in questo caso la nave svedese che urta nella nebbia, di notte, il bellissimo transatlantico italiano Andrea Doria> che cosa rimane di regole, armonie, doveri, convenzioni, abitudini, reazioni dell'educazione, reazioni istintive, che cosa si salva, dopo la tragedia, a parte le vite umane? Non so se il proposito è stato chiaro fin dall'inizio nella mente di questo singolare autore che riesce a montare in un grande spettacolo documenti, annotazioni burocratiche, testimonianze contrad- dittorie di tante memorie private. Ma certo Hoffer è riuscito a comportarsi come un giudice o un avvocato che debba affrontare una materia estranea e capirla fino in fondo — e farla capire alla giuria — senza per questo essere o diventare esperto. Rimane alla stessa distanza dei suoi lettori. Ma con una mano fa luce e con l'altra batte il più forte possibile il tamburo dell'emozione per ricostruire lo stato d'animo di allora in chi adesso deve rileggere e giudicare. Chi farà il film (inevitabile) di questo libro dovrà avere uno straordinario cast director. Gli servono decine di attori protagonisti e decine di eccellenti anche se minori professional, per dare volti credibili alla quantità di storie che si affacciano e scompaiono durante cinque ore di tragedia svolte, con un ritmo che toglie il fiato, in duecentocinquanta pagine. Ma di questo strano romanzo-verità restano in men te pochissimi personaggi, o gruppi di personaggi. Gli altri, per quanto si dibattano nella sofferenza e vengano a presentarla in primo piano, restano quasi sempre le voci disperate di un coro. L'attenzione di Hoffer è affascinata quasi solo dagli italiani. In questa tragedia, in questa ricostruzione narrata del comportamento italiano in una condizione di estrema emergenza, spiccano quattro ma-' schere, la solitudine, il senso del dovere moralmente rigoroso, tecnicamente impreciso, le estreme viltà e l'estremo eroismo. Queste quattro maschere colpiscono il lettore italiano molto più dei dettagli tecnici o delle contestazioni marinare che porteranno a nuovi dibattiti forse anche giuridici, intorno al dramma dell'Andrea. Doria e del suo affondamento. Sono quattro mascìiere che hanno partecipato al dramma dell'Italia che cade nel fascismo, che hanno incarnato il 25 luglio, popolato l'S settembre, sono maschere sparse fra gli eventi più tremendi delle due parti di guerra, contro gli alleati e contro i tedeschi, e poi dalla Resistema fino ai giorni nostri. E prima, molto prima, la guerra del 1915, le guerre africane. Sono le maschere di un Paese con la cultura spezzata, un Paese composto di frammenti che non comunicano, che non ha modelli solidi di comportamento comune, che si frantuma facilmente sotto i colpi negativi della vita, ma poi dà luogo a comportamenti individuali dove manca qualunque affidamento ma possono accadere (e accadono) episodi molto peggiori e molto migliori di ciò che si chiama «dovere». L'errore La prima maschera, abbiamo detto, è la solitudine. Il capitano Calamai, comandante dell'Andrea Doria e (in questo libro) responsabile, insieme agli svedesi, della tragedia, è il manager che deve affrontare una tremenda situazione di crisi operando in un mondo di sentimenti, decisioni, opzioni, valutazioni per le quali non mancano né virilità né coraggio. Manca fiducia. Tutto ciò che ci è stato detto della nave nelle pagine che precedono lo scontro spaventoso fra Stockholm e Andrea Doria, causato dal calcolo uguale e sbagliato dei due capitani, serve a farci capire che una nave di quelle dimensioni è una grande azienda, e che non l'istinto marinaro è in gioco ma la capacità di condurre una simile azienda, nei giorni di sole e in quelli di nebbia. Quando il calcolo risulta sbagliato sulla maschera austera del capitano Calamai si imprime subito prima un segno di sfiducia poi un segno di morte. Ma l'uomo non cerca aiuto, non cerca comprensione e non può neppure rendersi conto che gli altri (i suoi passeggeri) hanno bisogno di comprensione, cioè di messaggi. Il silenzio del capitano, dopo l'errore, è uno dei dati più agghiaccianti e, tristemente, più •nazionali» di questa parte del dramma. Lo stesso meccanismo dell'errore rivela il tormento del ma nager Calamai Quando le due navi sono a un miglio, e la collisione è certa, il comandante svedese procede per. puro errore, quello italiano spinto da un impulso mentale a sperare nel miracolo. Ma spera nel miracolo solo chi sa o ritiene di non avere alcun retroterra professionale, alcuna solidarietà o sostegno in caso di «disgrazia». Nella ricostruzione di Hoffer il capitano Calamai aveva una opzione disperata: lanciare la nave italiana contro quella svedese in collisione diretta, prua contro prua, piuttosto die lasciarsi squarciare nel fianco pieno di cabine e di vite umane. Pare che l'esperienza marinara suggerisca questo disperato espediente nel caso che una collisione sia inevitabile. La prua è il punto meno vulnerabile di una nave. Calamai ha avuto a quanto pare circa un minuto per quella decisione, ma la collisione frontale voleva dire disastro sicuro, anche se limitato, dunque un danno certo per la carriera e il prestigio. La virata improvvisa e l'aggrapparsi al miracolo (la nave avrebbe potuto sfuggire allo scontro per una frazione di secondo, magari aiutata da un colpo di vento oun gorgo di correnti) non dimostrano senso ^mediterraneo» di fiducia irrazionale. Al contrario, una visione tragica e pessimistica della vita.O tutto o niente. La vita è un cupo teatro nel quale non si può restare feriti ed esposti alle accuse. O ci si salva del tutto o si va a fondo. Le testimonianze del libro ci dicono che era ferma intenzione di Calamai di uccidersi o di affondare con la sua nave. Solo il ricatto degli alti ufficiali lo ha indotto a mettersi in salvo, quando gli hanno detto che se lui non scendeva tutti sarebbero restati con lui Nell'autore esiste la certezza che il capitano svedese sia stato negligente e quello italiano abbia senza dubbio sbagliato l'estrema manovra. Ma esiste anche il dubbio che gli ufficiali italiani non abbiano, non tutti e non sempre (nello spazio tragico degli ultimi pochi minuti), fatto quelle 'doppie verifiche» che dovrebbero essere l'ossessione di un equipaggio di un simile livello, uno staff che non abbandona mai il proprio posto, a cui non saltano i nervi e non manca neppure la gentilezza, mentre la nave affonda. Insieme con il capitano essi sembrano, nei documenti e nelle memorie ricomposte da Hoffer, tutti colpevoli in un modo cosi tipicamente e tristemente italiano: il silenzio. Il capitano tace perché sta già pensando di morire con la sua nave (anche se tutti gli sforzi tecnici per la salvezza dei passeggeri sono già in atto). I suoi ufficiali tacciono perché nessuno di loro avverte il bisogno della comunicazione con i non professionisti, i non addetti ai lavori, cioè i passeggeri. Un solo ufficiale ha avuto l'ordine di usare gli altoparlanti Paradossalmente, incredibilmente, lo fa una volta sola in italiano una volta sola in inglese. E poi non parla mai più, durante le cinque ore in cui si aspettano i soccorsi. H cameriere In questo modo la comunicazione avviene solo su iniziativa dei passeggeri. E solo di quei passeggeri (gente autorevole, sbrigativa, di prima classe) che sa dove si trova il comando e come parlare con gli ufficiali In tutte le testimonianze riportate questi passeggeri trovano comprensione, aiuto, presenza di spinto, uno staff impeccabile. Ma giù nella nave, per i milleseicento che non hanno accesso alla zona comando, circolano voci, superstizioni, pianti aggressioni, scene isteriche, tutto meno l'informazione. In tal senso, in quel momento l'Andrea Doria è, nel modo più tipico e tragico, una nave italiana. Intanto l'equipaggio, marinai e camerieri, si è diviso in due tribù, una di banditi disperati che sbattono indietro le donne e i bambini e occupano le scialuppe. L'altra di eroi con un coraggio e una calma incredibili, marinai sconosciuti che scendono venti volte sotto coperta nella melma di acqua e di olio a cercare chi ha bisogno di aiuto, a prendere la coperta o il giubbotto di salvataggio di chi l'ha dimenticato, a battere con le mani e le spalle contro le porte incastrate, senza smettere mai continuando a parlare con chi è rimasto bloccato, perché non si spaventi C'è il cameriere di tavola che ricorda benissimo quale bambino manca nel gruppo che era abituato a servire, si accorge della sua assenza prima dei genitori e sale e scende per tutta la na¬ ve a cercarlo, mentre l'Andrea Doria ogni due minuti si volta sul fianco fino al punto che nell'interno bisogna strisciare. C'è un cameriere di cabina, Rovelli, l'unico nella pattuglia di eroi solitari di cui qualcuno si sia ricordato il nome, che passa tutte e cin-. que le ore nella cabina 56, la prima a essere sventrata dalla nave svedese, nel tentativo di liberare dai rottami due donne (e una la salva). E c'è il medico di bordo che passa di gruppo in gruppo come in una 'normale» emergenza, fa le iniezioni, ausculta i polsi, controlla i feriti e va via solo con l'ultima barca. La cosa interessante e terribile è che tutto il bene e tutto il male che si compie fra i rottami della nave che sta per sparire nel maree un atto spontaneo e volontario. Gli ufficiali sono competenti e isolati i passeggeri sono soli nel buio. In quel buio c'è chi si avventa su di loro per rubare i galleggianti di salvataggio e t posti sulle barche, e chi non smette mai di aggirarsi cercando di offrire aiuto o pronto a rispondere a ogni richiesta. Quando gli scampati (milleseicento su milleseicentocinquanta) giungono a New York, divampano sui giornali e nelle radio due opposte notizie: gli italiani sono angeli eroi Gli italiani sono opportunisti senza disciplina che pensano solo a se stessi. William Hoffer, in Saved, ci mostra la tragedia dell'Andrea, Doria in uno specchio spezzato. Quello specchio assomiglia all'Italia. Furio Colombo

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