Quale egemonia?

Quale egemonia? DA DE GASPERI A MORO Quale egemonia? Rispondendo al mio articolo sulla «Lunga egemonia di De Gasperi», comparso su queste colonne nel venticinquesimo anniversario della scomparsa del grande statista. Guido Gonella, in una nota sul Tempo di Roma, contesta ancora una volta l'uso del termine «egemonia», in quanto riferito alla democrazia cristiana del dopoguerra, e mi accusa di aver mutuato quel termine da Bettino Craxi, «il vero inventore del recente uso di questa parola». Mi dispiace di dover deludere il senatore Gonella, nella puntigliosa ricerca delle fonti. Conosco Bettino Craxi dagli anni in cui ero direttore del Corriere e l'attuale leader socialista non era neppure deputato: dominatore della federazione provinciale del psi, con quel piglio e quella grinta che lo porteranno dieci anni dopo alla guida del partito, ma cui mi rivolgevo soltanto nelle occasioni in cui veniva n Milano Pietro Nenni, col quale amavo incontrarmi, per la vecchia amicizia mai smentita nata negli Anni Cinquanta, cioè negli anni degasperiani in cui si co-1 minciava a parlare, con vena fra ammiccante e maliziosa, dell'«operazione Nenni» (e ricordo una lucidissima, penetrante previsione di Nenni, vicepresidente del governo Moro, incontrato con Craxi nell'albergo Cavour di Milano, alla vigilia delle elezioni del 19 maggio 1968: «Come socialisti unificati avremo fra novanta e novantacinque deputati: se scatterà la prima cifra, saremo alla crisi del centro-sinistra e al disimpegno, sulla seconda si salveranno formula e governo attuali». E scattò la prima!). Ma Craxi, nonostante tale lontano rapporto, non mi ha insegnato l'uso del termine «egemonia» nel senso, storiografico e scientifico, in cui l'ho usato due volte, al di fuori dei sottintesi polemici che il mio interlocutore ostinatamente gli attribuisce. L'espressione «egemonia democristiana» l'ho mutuata, tale e quale, dal maggiore degli statisti democristiani dopo De Gasperi, cioè da Aldo Moro. E' contenuta esattamente in quel tormentato e profetico discorso ai gruppi parlamentari democristiani del 28 febbraio 1978, quindici giorni prima del terribile rapimento, il discorso che doveva autorizzare, senza lacerazioni e spaccature nel partito di maggioranza, la fase sperimentale del governo a direzione democristiana fondato sulla maggioranza di solidarietà nazionale (un'occasione che è stata sprecata o compromessa per errori di tutte le parti, e non del solo partito comunista, pur responsabile del catastrofico sbaglio delle elezioni anticipate). ..Ebbene: in quell'occasione Moro tracciava il quadro dei rapporti di forze scaturiti dalle elezioni del 20 giugno 1976, quelle elezioni che comandavano una forma di «coesistenza competitiva» fra i due «grandi» della politica italiana, de e pei, entrambi in qualche misura vincitori della prova. «Noi abbiamo avuto una vittoria, parole testuali di Moro, ma non siamo stati soli. Anche altri hanno avuto una vittoria; siamo in due vincitori, e due vincitori in una battaglia creano certamente dei problemi». Moro rievocava in quel discorso, l'ultimo della sua milizia politica, le condizioni di isolamento in cui la de si era trovata dopo le regionali del '75, il tentativo di deporta dal «trono» in cui l'elettorato l'aveva collocata come primo partito italiano, il piano ostinatodi coinvolgerla in una questione morale, in una specie di processo di piazza, da cui l'altero sdegnato intervento dello stesso Moro alla Camera, sul «caso Lockheed», l'aveva salvata. «Ci siamo comunque trovati, incalzava il presidente del Consiglio nazionale della de, l'uomo che aveva accettato quella carica senza alcun entusiasmo, che aveva voluto la ripetizione dell'incerto e stentato voto iniziale, ci siamo trovati relativamente isolati: dico relativamente perché non abbiamo un fronte di partiti ostili contro di noi, ma, fatto davvero nuovo, fra questi partiti non c'è il partito comunista». Di qui la necessità di un dialogo con tutte le forze costituzionali, di qui l'esigenza di un «disgelo» fra le formazioni su cui si fondava la legittimità della Repubblica (dialogo, aggiungeva Moro, «cui era giunto un po' tardi il partito liberale, mentre se ci fosse arrivato prima le cose forse sarebbero state migliori»). «Non abbiamo perduto in senso proprio l'egemonia, ecco la conclusione che traeva Moro nel suo discorso, ma certamente la nostra egemonia è attenuata» (cfr. la raccolta dei discorsi Nella società che cambia, curata da Giovanni Di Capua, Roma, 1978, p. 319; ma il discorso è stato riprodotto in numerosi altri testi e commentato, sotto il titolo: «La crisi di un'egemonia», in un ritratto di Moro raccolto nella seconda edizione di un volume cui il sen. Gonella si richiama, L'Italia della ragione). Escludo che Moro, democristiano coerente e intransigente qual era, difensore orgoglioso del proprio partito nella buona e nell'avversa fortuna, calcolatore attento e quasi spietato delle parole, o meglio delle sfumature e delle gradazioni delle parole, abbia usato il termine «egemonia» nel senso riduttivo o tradizionale di supremazia esclusivista e mortificante che gli attribuisce il senatore Gonella, riecheggiando indirettamente la versione marxista e leninista della parola, che non è la sola. Ed è cosi poco la sola che un autore caro alla tradizione cattolico-liberale dell'Ottocento, proprio Gioberti, svincola la parola «egemonia» dal suo significato prevalente di supremazia politicomilitare per spostarla piuttosto su quello di primato morale e civile, fondato non più sul possesso della forza delle armi quanto piuttosto sulla tradizione e sulla civiltà. «Egemonia», a questo punto, si identifica con «guida politica», un termine che pure risuonava nello stesso discorso testamentario dell'on. Moro; e nessuno potrà disconoscere che i primi trent'anni della Repubblica si siano svolti sotto governi a guida democratica cristiana, al di là della contabilità dei rari ministri della Pubblica Istruzione o dei Beni culturali laici cui il sen. Gonella si richiama nei suoi bilanci (quasi a sottolineare l'autonomia di decisioni e di scelte politiche che sono derivate non dalla benevolenza democristiana, ma dall'incontro o dall'intreccio, mai interrotto in questi trent'anni, fra tradizione'cattolica e tradizione laica, anche al di là degli squilibrati rapporti di forza fra i rispettivi partiti). Giorni fa ho partecipato a Modena, nel quadro del Festival de dell'amicizia, a un incontro di livello sul partito popolare sessantanni dopo: con uno storico cattolico come De Rosa, uno storico laico come Valiani, uno storico marxista come Spriano. Abbiamo discusso a lungo di cos'è stato il partito popolare, del nesso fra partito popolare e democrazia cristiana, del perché De Gasperi preferi il secondo nome al primo, legato al nobile apostolato sturziano. Il partito popolare conquistò il venti per cento dei suffragi nella prima prova elettorale del '19, non avendo alle spalle un retroterra di partito vero e proprio ma solo una tradizione di laicato cattolico quasi sempre inquadrato negli organi diretti o sorvegliati dal clero. Puntò a certe alleanze, sperò in un'intesa coi socialisti, mandò al governo ministri, anche alla Pubblica Istruzione, come Antonino Anile (dove sta l'intolleranza dell'Italia laica?), ma non guardò mai all'egemonia politica. Il suo massimo obiettivo era di portare i cattolici fuori dal ghetto, di ristabilire un equilibrio. La democrazia cristiana, venticinque anni dopo, non solo conquistò immediatamente oltre il trenta per cento dei suffragi, ma si candidò subito a una funzione centrale e di guida della politica italiana, attraverso un'accorta mediazione fra ceti medi di ispirazione liberale e la compatta riserva delle masse cattoliche, non senza la svolta del voto universale femminile. Leo Valiani raccontò a Modena che, subito dopo l'incontro con De Gasperi all'indomani della liberazione di Roma, disse: «Quest'uomo governerà l'Italia per cinque anni». Aggiunse: «Avevo sbagliato di due anni; la governò per sette». E noi laici siamo i primi a riconoscere — concluse Valiani — che la governò bene. Anche Gramsci, quando parlava di «egemonia», pensava al merito; tanto è vero che ne attribuiva l'esercizio, prevalentemente, agli intellettuali. Giovanni Spadolini

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