«Finché la Maginot tiene...»

«Finché la Maginot tiene...» RICORDI DI UN GIORNALISTA SUI TRAGICI GIORNI DI 40 ANNI FA «Finché la Maginot tiene...» Nella Francia, protetta da un gigantesco baluardo di cemento, l'ottimismo è di rigore; nemmeno il crollo della Polonia basta ad aprire gli occhi allo Stato Maggiore - «I panzer tedeschi? Servono solo per i bollettini, non per le conquiste» - Ma dietro la frivolezza ufficiale, trapela una vaga inquietudine Arrivato a Parigi, ero andato a presentarmi a Paul Hasard, un accademico di Francia noto italianisant, richiamato alle armi con il suo grado di maggiore presso il servizio delle informattioni e della propaganda, diretto dall'altro glorioso accademico Jean Giraudoux. Avevo bisogno di accreditamenti e Hasard fu molto gentile nel disbrigo delle pratiche. Mi avvertì che andare a visitare la linea del fronte era escluso, ma che avrei potuto assistere alle conferenze stampa che si tenevano nel quartier generale delle informazioni, il Grand Hotel Continental, e poi mi domandò se mi piaceva la Parigi oscurata in occasione della guerra. «Non è forse vero — mi disse — che è molto meglio avere spento le luci artificiali che finora ci impedivano di vedere il cielo al di sopra dei tetti? Adesso compaiono stelle molto vicine, e prima ignote. Passano sopra il ponte di Austerlitz e la porta Maillot,. e c'è la luna che rischiara le acacie in place du Tertre e i giochi d'acqua del Rond Point. E restituisce decoro ai muri dei palazzi, ne mette in valore i cornicioni, i rilievi, le ombre. Oh, finalmente Parigi si sta guadagnando un'armonia nuova e discreta, fatta di fremiti di vento tra le foglie degli alberi, di sciacquio delle fontane, di mormorio del fiume». Era una visione molto letteraria quella che Hazard mi suggeriva, ma non pacifica del tutto: «Stia sicuro però, mio caro amico, che questa Parigi è una belva che trattiene il respiro, acquattata' sotto un cielo seminato di palloni drago, irretito da cavi d'acciaio, pieno di trappole sotto la coda dell'Orsa e di torpedini nella corrente della Via Lattea. Un aeroplano che arrivasse farebbe esplodere tutto il cielo». Hazard era ottimista anche sul piano dell'andamento della guerra in generale: «Se i tedeschi volessero attaccarci troverebbero la linea Maginot, e dietro la linea Maginot altri apprestamenti. E poi, dietro questi altri apprestamenti, il grosso dell'esercito francese. Noi siamo perfettamente tranquilli perché Hitler sa bene con che cosa ha a che fare. Sia certo, caro amico, che non è davvéro per il suo buon cuore che Hitler evita di saltarci addosso». L'esito delle operazioni sul fronte polacco pare che non fosse bastato a impressionare sul serio. C'erano ufficiali che a noi giornalisti parlavano della Wehrmacht come di un esercito spettacolare, da parate, magari fornito di buoni subalterni e buoni sottufficiali, ma con generali di poca esperienza — molto inferiore a quella dei francesi — e anzi piena la testa di formule scolastiche inadatte all'impiego delle grandi unità. Anche la guerra di tipo nuovo, la cosiddetta Blitzkrieg, guerra lampo, era un'esercitazione studiata a tavolino, ma portata sul terreno era destinata ad inciampare in mille ostacoli e infine ad arenarsi: «Le truppe motorizzate tedesche servono più per i bollettini che per le conquiste», aveva scrìtto il crìtico militare del .Journal des Débats» il 18 settembre, giorno culminante della catastrofe polacca. Al quartier generale delle informazioni nel Grand Hotel Continental i discorsi dei portavoce militari erano sempre gli stessi. La Francia poteva considerarsi tranquilla grazie ad .un fronte continuo' capace di resistere a tutti gli attacchi. C'era un Belgio «inviolabile» e poi .l'invalicabile. massiccio delle Ardenne, quindi la .invulnerabile linea Maginot», ed il corso del Reno rinforzato da casematte. Nessun perìcolo, e pertanto nessuna intenzione francese di prendere l'iniziativa di operazioni: «La Francia — ci spiegò un giorno un colonnello — ha speso miliardi per costruire la linea Maginot, e certo non per non usarla. Lasceremo ai tedeschi fare la sciocchezza di attaccare per primi, e solo quando loro saranno stremati noi passeremo al contrattacco. Sarà una controffensiva folgorante, simile a quella del 1918, e la vittoria sarà nostra». Si sa bene che le conferenze stampa, in specie quelle indette dai militari, riescono assai raramente informative, ma per mio conto, come giornalista straniero e per di più in arrivo da un Paese abbastanza sospetto, mi era impossibile accedere ad altre fonti. Qualcosa mi dicevano colleghi francesi regolarmente accreditati in qualità di corrispondenti di guerra presso alti comandi, i quali talvolta erano ammessi ad avvicinarsi al fronte. Erano giornalisti e scrittori di fama, quasi tutti già combattenti della prima grande guerra: André Maurois, Blaise Cendrars, i fratelli Tharaud, Alexandre Arnoux, Joseph Kessel, Roland Dorgélès, Octave Aubry, Jacques Boulenger. Cercavo di avvicinarli nell'Hotel Continental ma non tutti erano propensi alle confidenze, ed anzi i più incutevano soggezione, sia per la rinomanza sia per l'età, e si da¬ vano arie. Nell'insieme, co-' munque, quando i tentativi di conversazione mi riuscivano meglio ne ricavavo l'impressione che essi fossero tutti, dal più al meno, fiduciosi e ottimisti quanto i militari. Di concreto sapevano poco e non facevano che raccontarsi storielle che erano di genere prevedibile, anzi sempre le stesse data la poca varietà di fantasia dei temi militari. C'era quella riguardante l'ultima trovata della scienza bellica per difendersi in tempo dai gas asfissianti: basta tenere una gabbietta con dentro due piccioni alla testa di ogni reggimento. Se arrivano i gas, i piccioni muoiono subito per la delicatezza del loro sistema polmonare, e non resta che dare l'allarme all'intero reggimento. E tutti a ridere. Poi c'era quella del generale, uomo d'altri tempi, che aveva scoperto il modo di battere i panzer tedeschi anche senza cannoni anticarro (pare che l'esercito francese ne mancasse, ma nessuno ne parlava nel Grand Hotel Continental). Dunque, se arriva un panzer lo prendono d'assalto quattro uomini armati di non altro che un lenzuolo con il quale incappucciano la torretta e tappano le feritoie. L'equipaggio, accecato, non può che arrendersi. ' Chi ha fatto un poco di servizio militare o — ancor meglio — di guerra, sa che alle mense ufficiali raccontini e spiritose invenzioni di questo genere hanno sempre successo, ma non perché gli ascoltatori del luogo siano più idioti di altri che si incontrano al- trave. E' piuttosto perché sono storielle che nella loro triste amenità servono di compenso e di evasione alla consapevolezza di una situazio\ne reale ancora più triste: che per esempio non si dispone di sistemi seri per la pre■ vernicine di un improvviso at1 tacco con i gas, né di armi anticarro sufficienti contro i panzer del nemico. Veniva allora fatta la domanda, nei salotti del Grand Hotel Continental: «Ma noi, a parte gli scherzi, carri armati ne abbiamo? In tutti 1 giri che ho fatto per il fronte non me ne hanno mal fatti vedere». «Ma è naturale, li tengono nascosti». «Un ufficiale di aviazione mi ha detto che manchiamo di apparecchi veloci». «Un po' di pazienza: so che sono in rodaggio». «Abbiamo dei formidabili paracadutisti, ma sono condannati a stare a terra per la mancanza di aviazione da ; trasporto, appiedati come la cavalleria dell'altra guerra». «Paracadutisti appiedati, capaci di gettarsi da duemila metri, vedrai che tipi di colpi di mano sapranno fare». Piacevolezza come ricerca di compensi psicologici per non turbare l'ottimismo che si voleva ad ogni costo mantenere: è l'atmosfera in cui vivevamo noi corrispondenti di guerra accreditati presso il Grand Hotel Continental, praticamente ospiti di due accademici di Francia militarizzati, Jean Giraudoux e Paul Hazard. Sentii parlare! una volta, come di una stranezza, delle teorie di un colonnello comandante dei carri della V armata, nella zona di Metz: «Ma il suo generale 10 ha messo a posto. Non è la fanteria che è al servizio dei carri, ma sono i carri che devono servire la fanteria, ed è questa che vince o che perde, come è stato sempre». "Quel colonnello avvenirista si chiamava De Gaulle, nome che allora diceva poco negli ambienti del nostro Grand Hotel Continental; un colonnello come tanti altri, si pensava. Pareva che dovesse interessare di più il comandante della sua armata, artigliere di grande rinomanza, che nel ridotto del forte Giovanna d'Arco aveva detto ai fratelli Tharaud: «Mi sento responsabile personalmente della vita di ciascuno dei miei uomini, e voglio quindi essere informato anche della minima operazione di pattuglia per valutarne attentamente i rischi». I due fratelli lo complimentarono per il suo scrupolo, ma poi Jerome ci disse in una sala dell'albergo: «Qualcosa non mi quadra. Troppo buon cuore guasta un generale». Era davvero una .dróle de guerre', come per primo l'aveva definita Roland Dorgélès al ritorno da un giro fra gli avamposti in Lorena, e «drdte» era davvero non. già nel senso di gaia o divertente ma di bizzarra e strana, che non le dava alcuna somiglianza con nessuna altra prova precedente, tanto di guerra quanto dipace. Vittorio Gorresio 5) Continua ' Uccellino in gabbia destinato a segnalare la diffusione di gas venefici all'entrata d'un fortilizio della linea Maginot — La fotografia, diramata il 15 dicembre 1939 dalla Wide World Phòtos con la dicitura che riportiamo, fu autorizzata dalla censura francese con disposizione 29833*