Col Carrero Bianco di Pontecorvo il politico approda a Venezia di Stefano Reggiani

Col Carrero Bianco di Pontecorvo il politico approda a Venezia GILLO P0NTEC0RV0 E UN CONVEGNO CHIUDONO LA RASSEGNA VENEZIANA Col Carrero Bianco di Pontecorvo il politico approda a Venezia VENEZIA — Con Ogro la mostra ha presentato ieri, in chiusura delle manifestazioni, il suo film più politico. C'è la ricostruzione di un attentato compiuto sei anni fa in Spagna, ma, insieme, un collegamento diretto, sotto forma di dibattito e di posizioni, con i problemi presenti del terrorismo. Gillo Pontecorvo, che portò a Venezia nel 1965 l'ottima riuscita della Battaglia di Algeri, ha ripreso i temi della sua vocazione civile. Pontecorvo è un libertario armato di pazienza, un rivoluzionario che conosce gli indugi della storia e il valore preminente dell'unità nazionale: ha sempre cercato le sue vicende di riscatto nei popoli in lotta per l'indipendenza, dove il volto del nemico è chiaro come l'interesse collettivo. In Ogro si tratta del popolo basco sotto il domìnio di Franco, privato non solo delle libertà politiche, come il resto degli spagnoli, ma della propria identità nazionale. Ma si tratta anche della storia di oggi, perché i gruppi separatisti baschi non credono alla democrazia del dopo Franco e continuano la lotta, con sanguinosi atti terroristici, per la definitiva separazione dalla Spagna. L'inclinazione naturale di Pontecorvo sarebbe stata per i fatti antifascisti di ieri, cosi lineari e conclusi: la sua decisione di continuare il confronto col mondo d'oggi è il frutto di un rischio affrontato generosamente, con qualche sacrificio, contro le seduzioni di un racconto altrimenti compatto e impermeabile al dubbio. Dice: questa volta non ho fatto un film corale, ho studiato dei caratteri. Nel 1973 quattro membri dell'Età, l'organizzazione separatista basca, vengono incaricati di sequestrare Carrero Bianco, numero due del franchismo. Lo terranno prigioniero in uno scantinato di Madrid, mentre l'Età chiederà, in cambio del rilascio, la liberazione di 150 carcerati politici. Il piano messo a punto in tre mesi viene reso vano dalla nomina di Carrero Bianco a primo ministro (maggiori controlli, tante guardie del corpo). L'Età decide per l'attentato. I quattro affittano un seminterrato sulla strada che la macchina di Carrero percorre ogni giorno, scavano un cunicolo sotto l'asfalto, lo riempiono d'esplosivo, travestiti da operai collegano la miccia con un lungo cavo elettrico e aspettano. L'esplosione manderà la macchina di Carrero fin sui tetti. Stacco sui nostri giorni. Dei quattro attentatori, tre hanno accettato le regole democratiche della lotta politica visibile, uno ha scelto di conti nuare nella clandestinità e nel terrorismo, anche «per cambiare la gente». E' uno stalinista cattolico (infanzia in seminario), che sarà colpito mortalmente durante l'attentato a due poliziotti. Al suo letto d'ospedale vengono vecchi amici, il clandestino rimprovera sofferente che loro sono di quelli che hanno troppa pazienza in politica; loro sono commossi, ma ri¬ spondono di si, hanno tanta pazienza in politica, quella che ci vuole, quando ci vuole. Per far posto al dibattito Pontecorvo ha rotto consapevolmente la regola della suspense (tranne che nella sequenza dell'attentato, buonissimo pezzo di cinema) e ha dovuto forzare il carattere dei personaggi in senso pedagogico. Adombrata appena l'analogia col caso Moro, quando si progetta il sequestro di Carrero Bianco, il confronto si stringe, in battute necessariamente rapide ed esemplari, all'uso della violenza, tra chi la vuole direttamente utile alla politica e nata dal consenso (come nell'antifranchismo) e chi segue disegni più lunghi, anche a costo del danno politico immediato. Era un tema difficile, dolorante, Pontecorvo l'ha inserito con piccole lacerazioni dentro il racconto; se Volontè e gli altri interpreti l'avessero; aiutato con maggior partecipazione si sarebbe evitato il pericolo di schematismo che contornail gusto dell'azione. Il secondo film della giornata conclusiva era l'americano The wanderers («I vagabondi»), diretto da Philip Kaufman. Scombiccherato eppure trascinante, infilato nella solita nostalgia degli Anni 60 e insieme nel torvo filone della, guerra per bande a New York, The wanderers si segnala soprattutto come opera del Bronx, fumetto e melodramma degli italiani d'America e delle altre minoranze etniche. La banda dei «vagabondi», giovanotti italiani ingenui e fervidi, deve affrontare le lotte e i pestaggi con bande rivali, stimolati dalla notte della metropoli. Per fortuna, ci sono le parentesi delle feste da ballo e degli amoreggiamenti, e c'è il correttivo delle tradizioni nazionali, col viigile controllo di alcuni padrini mafiosi, i fratelli Galasso. Tutto di riporto e tutto autentico, il film meriterebbe un'allargata meditazione sociologica. Stefano Reggiani Pontecorvo: in «Ogro» i baschi sotto il dominio di Franco