Sono chiusi all'Ucciardone tutti i misteri di Palermo di Francesco Santini

Sono chiusi all'Ucciardone tutti i misteri di Palermo Le feroci intimidazioni nel vecchio penitenziario borbonico Sono chiusi all'Ucciardone tutti i misteri di Palermo Che cosa avviene nel carcere siciliano dove, secondo le guardie, «è la mafia che comanda»? - Il nome di un «boss» in un esposto anonimo: tutti hanno paura - Non c'è speranza di trovare vivo il maresciallo scomparso DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE PALERMO — Contro la massa grigia del Monte Pellegrino si staglia, a raggiera, il tufo pesante dell'Ucciardone. A destra il mare, a sinistra la follia urbanistica della Palermo Anni Sessanta. L'ultimo mistero della città è nel suo carcere. La scomparsa di un sottufficiale degli agenti di custodia muove alla paura. Ormai, si sa, Calogero Di Bona, 35 anni, è stato assassinato. Non se ne trova il corpo, ma a Sferracavallo, in direzione di Punta Raisi. sua moglie, disperata, stringe tre bambini e si veste di nero.' Prende il lutto, non si rassegna. Per gli altri, tutto normale. Per il direttore del carcere, adesso, c'è un unico commento: « Qualcuno — dice — si sarà tolto un sasso dalla scarpa». Qualche giorno fa s'era mostrato ottimista: 'Sfogliando il suo fascicolo — aveva dichiarato — ci siamo accorti che proprio ieri, martedì, giorno della sparizione, Calogero Di Bona compiva 35 anni: si sarà concesso, come dire, una distrazione per festeggiare il compleanno». Ora dichiara: 'Pensavo a una ubriacatura, a una donna». E il capo delle guardie. Tirrito, che ha perso con Di Bona il suo braccio destro, commenta rassegnato: «Nulla nell'istituto giustifica la fine di Calogero. Allora niente paura, se si dovesse stare a pensare, non si dovrebbe più uscire in automobile: una distrazione, un incidente e si finisce di campare». Chi stava per perdere la vita giovedì, quarantotto ore dopo la sparizione del sottufficiale, è un agente, Giuseppe Scozzarello, 43 anni, accoltellato «senza motivo», dice il direttore, che sottolinea: -Anche lui all'esterno della prigione». Riflette: «Allora a che cosa serve un'inchiesta nel carcere?». La magistratura non è dello stesso parere. Due giudici collegano gli episodi per «scavare» tra le nove sezioni dell'antica fortezza borbonica. E da Roma? «Niente, niente dal ministero», risponde soddisfatto Clemente Cesareo, direttore all'Ucciardone. «Tutto in regola, niente da scoprire». Alle sette del mattino, per sapere che cosa c'è all'Ucciardone è sufficiente fermare, a caso, un agente che lasci il cancello d'acciaio, dipinto in celeste, della vecchia fortezza. L'uomo, assonnato, ha fretta. Ha la moglie al paese. Corre alla Sìp per rassicurarla. «E' andata, anche stanotte è andata», le dice, ma la donna non si calma. Piange al microfono e lui, brusco, l'interrompe: «Non preoccuparti, fammi stare tranquillo, poi il telefono corre, è meglio chiudere». Nove sezioni disposte a raggiera in un semicerchio. Per capire l'Ucciardone è sufficiente la quarta. «E' tutto lì — dice l'agente — l'infermeria è il nodo: lì sta la vera direzione del carcere, quella della mafia, che tutto decide». E il direttore? «E' sottoposto». E il ministero? «Se il ministero non interviene, qualche motivocisarà». Tutto, nella quarta sezione infermeria. «Quarta sezione e vecchia matricola: dove si svolgono i colloqui straordinari, a porte chiuse». A chi sono concessi? «Io vedo sempre le stesse facce». Racconta di piccoli privilegi, di celle sempre aperte, di carte da gioco, di radioline a modulazione di frequenza, di denaro che circola in infermeria tra i mafiosi «che comandano e noi siamo numeri». Di questi numeri all'Ucciardone ce ne sono 180. Agenti di custodia e sottufficiali, tutti convinti che, come dice il direttore, «è il buonsenso la prima qualità». Clemente Cesareo non ha paura che il «buonsenso» diventi ignavia. Se gli si domanda se è davvero la mafia a dirigere l'Ucciardone lui ha la risposta pronta: «Allora è la mafia che dirige tutto: le industrie, i giornali, la politica dirige, la mafia, lo stesso governo». Per lui ovunque c'è mafia, ma «per carità, che non si scriva». A suo giudizio, ogni carcere è uguale. «In ogni gruppo emerge qualcuno e certo qui non siamo in un collegio di educande». Poi un esempio: «Tra i lupi c'è il capo branco, tra i leoni, nella foresta, c'è chi prevale. Ovunque la legge del capo s'afferma». Ieri, in infermeria, c'erano 71 detenuti. «Meno del dieci per cento», dice Cesareo, che mostra le cifre: 224 definitivi, 466 giudicabili, 52 semiliberi. Un totale di 742 persone per un carcere che non dovrebbe ospitarne più di 500, almeno come si disse nel 1836 quando i Borboni vollero l'Ucciardone nella concezione e nelle pian¬ te simile a quello di Filadelfia, che allora, trent'anni prima della guerra di Secessione, era ritenuto un carcere modello. Cesareo nulla ammette. Nessun privilegio nei trasferimenti in infermeria, nessun favoritismo per i colloqui speciali «che si fanno a porte aperte». E i pranzi al ristorante? Raccontano i cronisti di Palermo che molti detenuti preferiscono a quella dell'istituto di pena la cucina del Gourmand's, considerato in citta un ristorante raffinato e alla moda. Anche questo viene negato dal direttore: «Concediamo — spiega — che poche vivande possano essere portate dai famigliari». Il motivo è antico. Rìsale al «caffè alla stricnina» preparato per Gaspare Pisciotta, luogotenente di Salvatore Giuliano. Dice il direttore, della scomparsa del maresciallo: • Tanti equilibri ormai si sono: rotti, più nessuno è intoccabi le, stavolta è toccato a un sottufficiale, la prossima volta chissà». Ed è vero. Le vie di Palermo sono lastricate di cadaveri. Un magistrato (Scaglione), due giornalisti (De Mauro, Francese), un politico (Reina), un carabiniere (il colonnello Russo), un poliziotto (il capo della Mobile Giuliano) ed ora un maresciallo degli agenti di custodia. Sempre, tra queste morti, s'è tentato un collegamento. Sempre, dopo questi assassini, s'è indicata la pista dell'Ucciardone. proprio come in queste ore che il carcere è sotto tiro. Se il gioco delle analogie e degli incastri è un gioco catturante, ma privo di risultati, questa di Calogero Di Bona è una morte che può essere chiarita. Le maglie dell'omertà si vogliono spezzare. Un esposto anonimo, finito sul tavolo della Procura della Repubblica, potrebbe essere la strada. Un gruppo di agenti denuncia il pestaggio di un collega. Indica, facendo il nome di Michele Micalizzi, l'autore di una rappresaglia, chiede un'indagine. Dal ministero ancora niente. Il direttore minimizza: «Nessuna rappresaglia, nessun pestaggio, una lite e basta. Lo dice, a chiare lettere l'agente picchiato. "Micalizzi, agitandosi, mi sferrava un pugno". Agitandosi, quindi agitandosi èpartito unpugno». Non si potrebbe smembrare questa infermeria? Risposta del direttore: «Spetta al ministero, se fosse per me trasferi¬ rei al Nord tutto l'Ucciardo- ne». Avete mafiosi importanti? Risposta: «I nostri mafiosi sono casalinghi, i grossi se ne sono andati». Fa il nome di Buscetta, che a Palermo è un mito. «Lui se ne sta a Cuneo», dice Cesareo con tanto buonsenso. A chi domanda se è vero che il giorno del matrimonio della figlia di Buscetta, celebrato nel carcere, a tutti i detenuti fu offerto champagne francese, Cesareo risponde: «Sono mancato dall'Ucciardone tra il 72 e il'75. Non mi risulta, almeno nella miat direzione». Francesco Santini

Luoghi citati: Cuneo, Filadelfia, Palermo, Roma