Una giustizia rapida per i cattivi maestri di A. Galante Garrone
Una giustizia rapida per i cattivi maestri NEGRI, PIPERNO E GLI ALTRI Una giustizia rapida per i cattivi maestri Non ho nessuna simpatia per i leaders dell'Autonomia, i Negri, gli Scalzone, i Piperno e gli altri compagni del 7 aprile. Mi urta la loro arroganza; l'aprioristico rifiuto di ogni approfondimento critico, di ogni onesto sforzo di comprendere le ragioni degli avversari. La loro cultura è satura di ideologismo d'acca .io. Scalzone si vanta di avere «sfogliato» i libri di storia. Sfogliati, forse; ma non letti e meditati. Negri ricorda i giornali del Settecento, e le riviste di Gramsci e Gobetti; ma non pare che abbia sentito, dei primi, il lucido rigore illuministico, e delle seconde l'afflato morale, la fede laica, lo spirito di sacrificio. Soprattutto mi offende la loro intolleranza faziosa, inoculata in tanti giovani sprovveduti. Li abbiamo visti più in testa a cortei urlanti slogan d'odio e di scherno, che ragionanti in sereni dibattiti, in pacate lezioni. Cattivi maestri. E poi, la loro fredda disumanità, di fronte ai misfatti del terrorismo, all'assassinio. Ieri, nella sua autodifesa a Parigi, Piperno ha definito il terrorismo «una risposta angosciosa, minoritaria, politicamente suicida a un bisogno vero di trasformazione di un sistema corrotto e imperfetto». Ma perché non aggiungere che la risposta è anche ignobilmente omicida? Perché Negri e Scalzone e gli altri non hanno mai avuto il coraggio di dire una sola parola di riprovazione e di sdegno per l'uccisione di Casalegno, dei giudici Alessandrini e Palma, dell'avvocato Croce, e di tanti altri innocenti? Ciò premesso, vorrei accennare a un problema già toccato altre volte, ma che il passare delle settimane e dei mesi rende sempre più assillante: la necessità di distinguere, nei processi in corso, ciò che è libera opinione (anche aberrante, rozza, violenta) da quel che sconfina nel delitto. Io mi batterò sempre, da vecchio liberale e democratico quale mi sento, perché sia consentito a ognuno — persino ai cattivi maestri dalle loro cattedre — di propugnare le più spericolate teorie sulla dittatura rivoluzionaria o sul sogno anarchico di una totale dissoluzione dello Stato (anche se un briciolo di senso storico mi avverte come queste teorie troppe volte siano valse a coprire le atrocità dello stalinismo e le infamie dei gulag, oppure la disgregazione dei rapporti sociali e la miseria degli oppressi). Ma è ovvio che ben altra cosa è l'attivo fiancheggiamento o favoreggiamento di fatti eversivi, l'organizzazione di un movimento clandestino o di un partito armato (vietati dalla Costituzione), un attentato, un assassinio, l'emanazione di direttive in questo senso, e anche l'istigazione o l'apologia di specifici comportamenti delittuosi. In questi casi ci si trova di fronte a fatti criminosi che vanno accertati e puniti severamente. Noi ancora non possiamo sapere se gli imputati del 7 aprile siano colpevoli o innocenti. Io non mi sento di schierarmi con chi proclama che essi «stanno in carcere perché hanno scritto, detto, pensato delle cose», e solo per questo. Ma neanche posso associarmi a quanti li hanno già spacciati come autori di specifici reati. Troppo spesso ci si dimentica del valore di orientamento che promana dall'art. 27 della Costituzione: «L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva». Un corollario di questo sacrosanto principio è che il magistrato può emanare ordini di cattura solo quando ha già in mano delle prove, o consistenti indizi, destinati, attraverso l'istruttoria, a convertirsi in prove; un altro è che, nell'attesa, si impone a tutti i cittadini «la prudenza del dubbio». Ma proprio per questa originaria presunzione di non colpevolezza, occorre — specialmente in casi come questi, che coinvolgono tanti interessi e passioni — fare presto «Chiediamo subito un processo», ha scrìtto dal carcere To ni Negri. La sua richiesta è legittima; come del resto già da molte parti si è riconosciuto. Facciamo nostre, oggi e in questo caso, le parole scritte cinque anni fa su questo stesso giornale da Carlo Casalegno. di fronte al processo di Catanzaro che minacciava (come poi purtroppo accadde) di trascinarsi per le lunghe «Gli imputati e l'opinione pubblica hanno il diritto di. chiedere, con impazienza, il controllo di un pubblico dibattimento. Il processo, trascinato attraverso rinvìi e supplementi d'indagini, alimenterebbe il dubbio d'una macchinazione». Vogliamo un processo rapido, sereno,, basato su fatti, non influenzato, in un senso o nell'altro, da preoccupazioni politiche. Proprio la mortificante esperienza delle lungaggini del processo di Catanzaro ci avverte che comincia ad essere legittima, dopo cinque mesi di attesa, la nostra impazienza. Alla radice di quell'indecoroso protrarsi (al quale si deve la scarcerazione, e poi la fuga dì Preda e di Ventura) c'erano, non dimentichiamolo, le assurde decisioni dell'alta magistratura sul trasferimento del processo a Catanzaro e poi sulla riunione dei procedimenti. Non vorremmo che altre decisioni assurde complicassero e aggrovigliassero l'istruttoria in corso. Qualche mese fa, il nostro plauso è andato al giudici che affrontavano il difficile e rischioso compito di far luce sulle imprese e le complicità del terrorismo, e abbiamo parlato del «coraggio di essere giusti». Non abbiamo nulla da ritrattare. Sappiamo bene tra quali difficoltà, e anche pericoli mortali (si pensi a Palma e Alessandrini) si muovano oggi i giudici impegnati nella lotta al terrorismo. Abbiamo tutti bisogno di una magistratura che non vacilli e non si rintani. E bisognerebbe che il Parlamento e il governo si convincessero della necessità di fornirle più mezzi, e più strumenti idonei, per l'assolvimento dei suoi compiti. Con altrettanta sincerità, debbo dire che mi hanno lasciato piuttosto perplesso le notizie su certe manovre poste in atto dagli inquirenti: dapprima la suddivisione e lo stralcio delle istruttorie decisi a Roma nei giorni scorsi, e da ultimo — fatto ancora più sconcertante — la seconda istanza, presentata in extremis a Parigi, a pochi giorni di distanza dalla prima, per ottenere l'estradizione di Piperno. L'impressione è che, in questi casi, non tanto si tratti di coraggio di essere giusti, quanto dell'arte di fare i furbi. Sarò un ingenuo: ma io penso che si debba avere più fiducia nelle vie diritte della giustizia che nei meandri, artificiosamente sfruttati, dei ripieghi procedurali. A. Galante Garrone
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