I professionisti della caccia alle rane di Francesco Rosso

I professionisti della caccia alle rane SI PROGETTA UN MONUMENTO IN RICORDO DEL VECCHIO «RANATE» I professionisti della caccia alle rane Il monumento al ranaté. un'idea che può sembrare delirante, fermentata nel divampare della canicola in risaia, quando l'aria diventa visibile per le vibrazioni dell'atmosfera infuocata. Invece, il progetto è maturato nei lenti, oziosi pomeriggi invernali, quando la galaverna ricama trine di gelo sui rami spogli dei salici e dei rovi. Il monumento al rana fé" non vuole essere la glorificazione di persone fisiche, dei loro meriti, ma di un'attività uccisa dal progresso, e del mondo che quell'attività rappresentava, un mondo di umili, di poveri, di semplici che in risaia, come risorsa, avevano ciò che la natura offriva, soprattutto rane, una caccia che consentiva carnieri opulenti e senza spesa: soltanto la fatica di piegare la schiena, del sonno mai sufficiente, dei pasti a base di pane di meliga, pomidori d'estate, qualche pescetto marinato d'inverno. Perché si andava a caccia di rane anche d'inverno, come dirò più avanti. L'idea del monumento al ranaté è germogliata a Trino Vercellese, piccola città in riva al Po. sopraffatta dalla risaia, e da un inconscio terrore per la cenfale nucleare costruita sul Gran Fiume. Anche in tempi nemmen troppo remoti, ma antidiluviani per le attuali generazioni, la gente di Trino non dormiva, ma per «andare a rane», un vegliare differente: tanta fatica, però sgombra dai terrori atomici. L'idea del monumento è di Ferruccio Bazzacco. che indaga con amore sul passato etnologico della sua città e di Mario Olivero, forse il piU giovane ed ultimo ranaté di un certo riguardo. Gli altri ancora vivi vanno verso gli ottanta, hanno la pensione sociale, si ritrovano in un circolo rionale, o sulle panchine al rezzo di alberi polverosi, a raccontarsi il passato, di quando «andavano a rane». Però sono onesti, danno ai loro maggiori il merito di aver fatto del ranaté una professione nobile, perché per tutta la vita, e quasi per l'intero anno, si sono occupati solo di rane. Negli anni a cavallo del secolo, tra il 1870 ed il 1940. un numero infinito di famiglie trinesi. padri, madri, figli, cacciavano rane. Son nomi quasi leggendari, che ritornano nei ricordi degli epigoni di questa caccia dei poveri. Vincenzo Olivero, detto Cento Cei, Michele Olivero, detto Michel Cei. Stefano Olivero, detto Stevu Mas'la (Mascella, ma come rendere quel suono qui rappresentato da un apostrofo, ottenuto premendo il fondo lingua contro le adenoidi? Soltanto l'arabo, lingua senza vocali, ha di questi suoni). In media durante l'anno, portavano a casa quindici chili di rane al giorno ciascuno. Poi passava un sensale, comperava all'ingrosso, e le rane prendevano la strada per Milano. Torino, il Monferrato. Era un'attività che consentiva di vivere a tutta la Fusa, un rione colmo di gente povera, stracolma di figli, che aveva reputazione dubbia fuori dalla propria cinta, ma all'interno viveva in comunità cenobitica: poco per vivere, ma quel poco diviso fra tutti. Gli ultimi ranaté con pensione sociale parlano di quei tempi come di una bella tavola insonorizzata dal gracidio di miliardi di rane. Tre nomi sono sufficienti per indicare una categoria ormai estinta: Giuliano Olivero. Giuliano Mosso. Mario Olivero. Chi non è stato in risaia non può comprendere che cosa abbiano rappresentato le rane per i contadini; erano la certezza della sopravvivenza, qualche volta una manna, specie per le puerpere; brodo di rane, delicato, leggero, nutriente. Per stomaci piU saldi, con l'aiuto di un paio d'uova, una frittata di rane. Eppoi rane fritte, in brodetto con prezzemolo aglio e peperoncino: rane nella pasta e nel riso. Qualche volta rane anche nel letto, se riuscivano a varcare le soglie degli usci a fior di strada. La caccia piU redditizia incominciava a marzo, con le prime arature: continuava fino a maggio, mese degli amori quando le femmine, i burach. stavano nel mezzo della risaia, a gracidare e deporre uova, ed esplodeva coi mesi del gran caldo quando, la notte, i grossi batraci uscivano a cercare refrigerio sugli argini e dove le attendevano i cacciatori col lume ad acetilene, due mezzi cilindri avvitati, un po' di carburo di calcio, un po' d'acqua, il gas sfriggolava da un beccuccio, un fiammifero, e la fiamma esplodeva violenta, azzurrognola. amplificata da un primitivo schermo parabolico nichelato. Le rane, ipnotizzale dal violento chiarore, si lasciavano catturare senza nemmeno l'istintivo salto per la tuga. Crac. crac, crac: ripetuto milioni di volte, il rumore significava la rottura delle coscelte, fragilissimi ossicini. piU cartilagine che osso, per impedire che le rane saltassero in disordine piU tardi. Quante cosce di rane hanno rotto i «fantastici Olivero» durante la loro esistenza? «Milioni e milioni», dicono gli epigoni con pensione sociale. Meritano il monumento? ..Lo mentano, eccome: fare il ranaté non era facile». Ma ci sono i concorrenti, quelli dei Cappuccini (sobborgo di Vercelli), i famosi tasch't (sempre quel suono seminasale) barabba, ma ranaté famosi in risaia. «Non come gli Olivero e gli altri di Trino. Durante l'estate andavano a piedi, a caccia di rane fin nella Baraggia, alle porte di Novara. Dormivano sotto un albero, perché stavano fuori casa anche due notti e due giorni. Oggi si va «a rane» soltanto con la canna, il lume ad acetilene è un ricordo sbiadito anche per i vecchi. Eppure, durante le notti estive, quando nel buio brillavano' le grosse lucciole delle «acetilene» la risaia sembrava palpitare per la danza di quei fuochi fatui che segnavano la condanna a morte per valanghe di rane. Oggi, che di rane quasi non ce ne sono più. una legge regionale impone il limite di un chilo a persona per impedire l'estinzione dei batraci in risaia; ma basterà? Mario Olivero dice di no. ci vuol altro per salvare le rane dalla distruzione totale perché le cause del loro annientamento sono troppe. In giugno, per gettare i diserbanti, le risaie vengono prosciugate, e multe rane muoiono. D'autunno entrano in risaia le mietitrebbia, ciclopi cingolati che maciullano lutto sul loro cammino. Ad autunno inoltrato, le paglie del riso vengono bruciate in risaia, ed anche questo concorre allo sterminio. Ad ottobre, quando coi primi freddi le rane vanno in letargo e s'interrano, assorbono il veleno di cui i diserbanti hanno intriso la terra, e muoiono nel sonno. A primavera poche si desteranno per la riproduzione. Un tempo, che pare favolosamente lontano, i veri ranaté sapevano cacciar rane anche durante il letargo. I batraci interrati lasciavano trasparire in superficie la loro presenza attraverso lo scium't (ritorna ancora quel suono paranasale). una sorta di muco sulla terra smossa. I ranaté passavano lungo gli argini esposti al sole, cercavano quei segni e scavando con una zappetta sorprendevano le rane dormienti. Continuavano finché gelo e neve stendevano un duro scudo protettore sul sonno delle rane, che si ridestavano ai primi tepori di marzo per continuare il ciclo vitale che dura da chi sa quanti millenni, perché la rana dev'essere davvero l'ultimo esemplare raggentilito di mostri primordiali. Ed ora che le rane stanno scomparendo con i ranaté. si deve erigere un monumento a questi ultimi per ricordare che un tempo la risaia era fittamente popolata di rane? Se a Vercelli hanno progettato il monumento alla mondina, perché Trino non dovrebbe erigerne uno ai ranaté nel cuore di quella Fusa in cui la caccia alle rane ebbe momenti da epopea popolaresca? Il problema, non da poco, è trovare i quattrini. Francesco Rosso

Luoghi citati: Milano, Novara, Torino, Trino, Vercelli