3 SETTEMBRE, ORE 13,30: UN ANNUNCIO RADIO TRONCA OGNI SPERANZA di Giuseppe Mayda

3 SETTEMBRE, ORE 13,30: UN ANNUNCIO RADIO TRONCA OGNI SPERANZA 3 SETTEMBRE, ORE 13,30: UN ANNUNCIO RADIO TRONCA OGNI SPERANZA E da quel giorno fu guerra Hitler ascoltò, cupo in volto, l'ultimatum inglese; poi si rivolse a Ribbentrop: «E ora?» - Intanto le città polacche venivano bombardate, il vecchio Kaiser pregava con i domestici nel suo castello, a Londra sgomberavano un milione di vecchi e bimbi - Il duca di Windsor, ad Antibes, meditava: «Temo che questo porterà al comunismo» Al largo di Nantucket la nebbia si infitti ma il comandante, commodoro Lorrigan, ordinò di non azionare le sirene. La radio di bordo taceva, gli oblò erano oscurati e sui ponti inferiori i marinai, nel buio, scrutavano il mare per individuare a tempo l'affiorare di un sommergibile tedesco: il «Queen Mary*, 81.000 tonnellate, il più grande transatlantico del mondo, stava dirìgendosi a New York con un carico d'oro di 44 milioni di dollari e 2300 passeggeri (quasi mille in più del consueto) parecchi dei quali dormivano per terra, nel salone da ballo a prora, e altri in amache appese nelle stive, fralemerci. Ciano Il transatlantico sfilò sotto la statua della Libertà alle 10,35 di sabato 2 settembre 1939 mentre in Polonia le forse corazzate di Guderìan raggiungevano la Vistola a Schwete, tagliando il Corridoio, e la vecchia corazzata tedesca «Schleswlg-Holstein» entrava nella baia di Danzica aprendo il fuoco contro le installazioni polacche. Dal «Queen Mary» scesero diversi personaggi, come il banchiere John Pierpont Morgan. Lo scrittore Erich Maria Remarque, privato della cittadinanza tedesca per il suo libro antimilitarista «All'Ovest niente di nuovo* e che viaggiava con passaporto svizzero, rifiutò di concedere interviste ai giornalisti. A un cronista della New York Herald Tribune disse soltanto: «Povera Germania, non posso combattere contro di lei». Il magnate del cinema Harry M. Warner commentò il viaggio dichiarando: «Avevamo i sommergibili di Hitler alle calcagna». In realtà non si era ancora alla guerra generale. Mussolini, tutt'altro che rassegnato a rinunciare al preteso ruolo di arbitro della pace europea e incurante dello stesso stato di fatto (la nota anglo-francese alla Wilhelmstrasse in cui si chiedevano «assicurazioni soddisfacenti sulla sospensione immediata di ogni azione aggressiva in Polonia»; aveva compiuto un nuovo tentativo di mediazione: consigliato da Ciano che suggeriva di «esporsi al pericolo» dì un fallimento, il Duce aveva convocato gli ambasciatori inglese e francese a Roma, Percy Loraine e Frangois-Poncet, dicendo che — se i loro governi erano d'accordo — avrebbe invitato per mar- tedi 5 settembre la Germania a una conferenza internazionale che riesaminasse «i punti del trattato di Versailles causa delle attuali agitazioni». Bonnet Messo in movimento da Mussolini, a mezzogiorno del 2 l'ambasciatore a Berlino, Attolico, corse affannato da Henderson a chiedergli se la nota del giorno prima al governo tedesco «aveva o no carattere di ultimatum» e l'ambasciatore inglese rispose che no, non di ultimatum si trattava ma «di avvertimento». Il Duce si aggrappò a questo esilissimo filo e, in due ore, costruì le traballanti basi dì una nuova Monaco. Ma la proposta di Mussolini ad Hitler, condensata in un telegramma di 217 parole, conteneva un passo («l'armistizio lascerà gli eserciti dove si trovano»; che, se gradito a Berlino, appariva inaccettabile per Londra e Parigi. Attolico — certamente più in buona fede del suo padrone — tornò su e giù per la Wilhelmstrasse, violando, nel proprio fervore, persino l'etichetta diplomatica e anche i limiti dell'incarico (assicurò fra l'altro Ribbentrop che il senso della nota anglo-francese «era stato superato dall'ultimissima comunicazione del Duce», il che non era vero) ma alle 14 Ciano si rese conto che il progetto svaniva. Verso le 19 Halifax, da Londra, gli confermò infatti per telefono che la nota non rappresentava un ultimatum: tuttavia il suo significato era chiarissimo e inequivoco e, secondo luì, gli inglesi non avrebbero potuto accettare le proposte di Mussolini se le truppe tedesche non si fossero ritirate dalla Polonia (punto sul quale, invece, il ministro degli Esteri francese, Bonnet, aveva taciuto). Cosi, scendeva già la notte del sabato quando Ciano, malinconicamente, scriveva sul diario: «Telefono a Berli¬ p no che, salvo avviso contrario dei tedeschi, noi lasciamo cadere le conversazioni. L'ultima luce di speranza si è spenta». Probabilmente Hitler sperava ancora che la Gran Bretagna e la Francia non avrebbero osato dichiarargli la guerra; comunque, lui non era disposto a fare concessioni e i cannoni che in quel momento annientavano le resistenze polacche nel Corridoio, non avrebbero più taciuto fino alla morte del Fuehrer, cinque anni e mezzo dopo. Però Hitler considerava anche che il suo «blitz» all'Est sarebbe stato di tale rapidità che la Polonia non avrebbe chiaramente tratto alcun vantaggio militare da un intervento alleato. Ora un altro giorno era trascorso; che cosa avrebbero fatto gli altri? Giorgio VI Alle 9 del mattino Varsavia fu ancora bombardata dalla Luftwaffe e uno «Stuka* di Loehr sganciò un grappolo di bombe su Konstancin, ameno luogo dì villeggiatura a 18 km a Sud di Varsavia, sulla sponda sinistra della Vistola, che distrusse la villa accanto a quella dell'ambasciatore americano a Varsavia, Anthony J. Drexler Biddle jr. A Londra, dove si sfollavano un milione e 275 mila vecchi e bimbi con l'impiego di treni, ambulanze, auto private e battelli fluviali (anche lo zoo venne messo in salvo ma Herbert Morrison, capo del Consiglio della Contea londinese dovette annunciare che «purtroppo abbiamo dovuto uccidere 40 serpenti che non potevano essere trasportati, due ragni e uno scorpione »>, il Guardian pubblicò la recensione del libro «Hitler's Last Year of Power*, di Léonard Blake, in cui era detto che, malgrado tutto, «non ci sarà una guerra». Negli austeri saloni di Buckingham Palace Giorgio VI ricevette il «premier* Chamberlain e gli disse di aver ripensato alla sua proposta di far stampare e distribuire nel Paese il messaggio reale che sarebbe stato trasmesso quella sera; aveva riflettuto a lungo — spiegò il re — e preferiva che non se ne facesse nulla: prima di tutto sarebbe costato troppo (35 mila sterli- ne) e poi si sarebbero costrette le Poste a un lavoro eccessivo. Il messaggio, naturalmente, era quello sulla dichiarazione di guerra. Nella notte il dibattito alla Camera dei Comuni aveva concluso che la Gran Bretagna doveva far fronte, subito e anche da sola, agli impegni con la Polonia: va gridato il conservatore Leopold Amery al «leader» laborista Greenwood che aveva fatto un cenno preoccupato alle incertezze della Francia. Con tono grave ma sereno Lord Halifax, dopo aver convocato nuovamente i Comuni per mezzogiorno di domenica, aveva avvertito Bonnet che «siamo pronti ad agire di nostra iniziativa». La Francia viveva ore di tensione sotto l'apparenza di una tranquilla mattina festiva. A Parigi l'ambasciatore degli Stati Uniti, Bullit, cercava di proteggere i suoi com¬ «Parli per l'Inghilterra» ave- dò: patrioti, facendoli sfollare in campagna o imbarcare, ma una celebre signora americana, la novantenne Dora Delano Forbes, zia del presidente Roosevelt, rifiutava di lasciare la capitale perché «voleva vedere la guerra».' «Ho avuto una vita assolutamente interessante — diceva —. Potrei morire meglio che per una bomba tedesca?». Nella terza edizione, quella delle 10, il Petit Parisien diede notizia che re Zog d'Albania, si trasferiva con la regina, il figlio e il seguito da Versailles a La Boule, in villeggiatura, e il ministero della Guerra francese ricevette, quasi contemporaneamente, una richiesta di arruolamento volontario da parte di un cittadino piuttosto anziano per fare il soldato, il signor Erich S. Oswald von Nordenwald, cinquantaquattrenne, residente ad Etretat, presso Le Havre, più noto nel mondo del cinema come l'attore Erich von Stroheim, austriaco. Nelle Cancellerie europee, ormai, tutti i giochi erano stati fatti e il mondo taceva, in attesa. Alle 9 Henderson si recò alla Wilhelmstrasse per consegnare l'ultimatum: a meno che entro le 11 non fossero state presentate dalla Germania garanzie soddisfacenti di una iniziativa per sospendere l'attacco alla Polonia, da quell'ora in poi sarebbe esistito uno stato di guerra fra la Gran Bretagna e la Germania. Ribbentrop non volle ricevere Henderson subito (l'avrebbe convocato più tardi, alle 11,15, per respingere le accuse inglesi e dirgli che «la storia ha già dimostrato come stanno i fatti ») e mandò al proprio posto l'interprete di Hitler, Schmidt. Questi ricevette la comunicazione e corse verso l'ufficio del Fuehrer passando in mezzo a una folla tumultuosa di gerarchi, fra cui Ley, Hess, Goebbelse Goering. Hitler sedeva alla scrivania, immobile; Ribbentrop era in piedi, accanto alla finestra. Schmidt lesse l'ultimatum e nessuno fiatò. Il silenzio di Hitler gli parve tremendamente lungo; alla fine il Fuehrer si volse a Ribbentrop e, «lanciandogli uno sguardo truce, quasi accusando il ministro degli Esteri di averlo indotto in errore circa la probabile reazione dell'Inghilterra», gli doman«E ora?». Schmidt usci nell'anticamera e comunicò l'ultimatum. Goebbels se ne stette zitto, pensieroso, ma Goering esclamò: «Se perdiamo questa guerra, Dio ci aiuti!». / francesi, ancora divisi in seno al governo ed esitanti, la tirarono in lungo. Dopo aver nuovamente discusso, nella notte, dell'offerta di media-i zione di Mussolini (offertaI ch'era già morta e sepolta) Bonnet informò ChamberI lain, all'alba della domenica, che l'ultimatum sarebbe stato presentato solo alle 5 del mattino di lunedì 4 settemI bre: questa scadenza — gli spiegò — era stata chiesta j dallo Stato Maggiore per una j migliore preparazione. Lon\ dra, irritata, fece conoscere I per telegrafo «il proprio sconj tento» e allora Daladier, convocato d'urgenza il generale I Colston, ottenne un termine 1 più breve, le 17 di quella stessa domenica. Alle 12,30 l'am' basciatore a Berlino, Coulon- are, dopo una bizzarra controversia diplomatica, potè consegnare l'ultimatum a Ribbentrop. «Allora — disse il ministro degli Esteri nazista — l'aggressore è la Francia» e Coulondre, inconsapevolmente, fece eco alle parole pronunciate da Ribbentrop un paio d'ore prima: «A giudicarlo — rispose — sarà la storia». La notizia che la Gran Bretagna era entrata in guerra fu data in Germania alle 13,30. La radio nazionale, dopo aver trasmesso il consueto programma dei principali spettacoli artistici (alla Staatsoper di Berlino andava in scena la «Bohème» e alla Volksoper «/ maestri cantori di Norimberga» mentre a Monaco si proiettava la prima del film «Katia, regina senza corona» con Danielle Darrieux) mise in onda la Prima Rapsodia Ungherese di Liszt in una vivace esecuzione dell'orchestra della Radio di Amburgo. Improvvisamente la musica si affievolì e cessò; una voce maschile disse: «Attenzione, prego. Fra qualche minuto faremo una importante comunicazione». Il «Bremen» Quando anche la Francia entrò in guerra, alle 17, su Parigi cadeva una sottile pioggia ma faceva molto caldo: bar, caffè e chiese erano gremiti; da tutte le stazioni partivano soldati. L'edizione straordinaria dWttntransigeant usci mezz'ora dopo. In prima pagina, a caratteri alti 15 centimetri, c'erano due sole parole, «La guerre»; l'ultima era quasi tutta occupata dalla settima puntata di un romanzo «giallo» che riscuoteva molto interesse, «Dieci piccoli indiani» di Agatha Christie. In Alsazia, nel suo ufficio di Wangenburg, il colonnello Charles De Gaulle, comandante di reparti corazzati della Quinta Armata, preparava un memorandum destinato ad ottanta fra uomini politici e generali di pri¬ mo piano: «Se il nemico non ha ancora messo Insieme una forza meccanizzata sufficiente a infrangere le nostre linee, lo farà presto — scriveva —. Il sorprendente successo delle sue divisioni in Polonia lo incoraggerà a insistere su questo nuovo metodo. Ora è necessario renderci conto che la linea Maginot (...) può essere travolta». Nelle stesse ore il transatlantico «Bremen», di 51.731 tonnellate, orgoglio della marina mercantile tedesca e partito da New York quando già la guerra era stata dichiarata, attraversava l'oceano tentando di sfuggire a gran parte della Royal Navy che gli dava la caccia (e vi riuscì, riparando a Murmansk il e settembre e poi ridiscendendo, cautamente, fino a Bremerhaven) mentre l'«U-30», comandato dal sottotenente Fritz Lemp, che incrociava a 200 miglia a Ovest delle Ebridi, silurò e affondo il piroscafo inglese «Athenia» che, partito da Montreal, stava facendo rotta per Liverpool trasportando 1400 passeggeri: 112, fra cui 28 americani, morirono. Nel pieno pomeriggio di quel 3 settembre a Doorn, in Olanda, l'ex Kaiser Guglielmo II di Germania ascoltò alla radio la dichiarazione di guerra contro il suo Paese. L'ottantenne imperatore chiamò la seconda moglie, Hermine (l'imperatrice Augusta Vittoria era morta nel '21), i domestici e l'autista egiziano, li accompagnò nel salotto e, inginocchiato sul tappeto, in mezzo a loro, recitò una preghiera. Il duca di Windsor — che aveva avuto amici a pranzo nella sua villa «La Croe» di Cap-d'Antibes — cercò invano di mettersi in comunicazione con Londra. Provò a lungo, col telefono e col telegrafo. Alle 17, deluso, tornò dalla moglie, Wally, che lo attendeva sulla spiaggia privata. «Temo che tutto questo finirà per aprire la strada al comunismo nel mondo», disse. Poi andò a nuotare. Giuseppe Mayda Una mitragliatrice tedesca protegge l'avanzata delle truppe in un sobborgo di Varsavia