A Spandau di Tito Sansa

A Spandau INTERVISTA CON IL COMANDANTE DEI SOMMERGIBILI DI HITLER Doenitz: «Ero un soldato, e basta» Gli U- Boote sparsero il terrore su tutti i mari, ma il Grand'Ammiraglio nega di aver preparato l'aggressione: «A Norimberga fui condannato innocente» - A 88 anni, un po' sordo, ricorda soltanto quello che vuole - Successore di Hitler, si vanta: «Ho salvato due milioni di tedeschi dalla prigionia russa» - «I miei due figli? Sono morti in guerra, naturalmente» DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE AMBURGO — «La dichiarazione di guerra inglese, il 3 settembre 1939, non mi sorprese» dice il Grand'Ammiraglio Karl Doenitz, il leggendario comandante della flotta sottomarina tedesca durante l'ultima guerra e successore testamentario di Hitler alla carica di ultimo Capo di Stato del Reich nazista. Il Grand'Ammiraglio mi riceve nella sua casa di Aumuehle, vicino ad Amburgo, tra boschi e taglietti, dove vive da solo da diciassette anni, da quando nel 1962 morì sua moglie. A Spandau La conversazione è molto difficile, procede a stento, che il Grand'Ammiraglio è affetto da una grave forma di sordità, e ogni domanda deve venire ripetuta, quasi sillabata. Le risposte però son immediate, precise e laconiche, da militare. Degli ultimi giorni di pace, nell'agosto 1939, e dei primi giorni dì guerra, nel settembre dello stesso anno, Doenitz ricorda ben poco. Ha quasi 88 anni, li compirà il 16 settembre, la sua memoria si è affievolita — egli stesso lo ammette —, ricorda solo fatti precisi riguardanti il suo preciso settore, quello dei sottomarini (i temutissimi U-Boote). Il resto è vago, sfumato. Doenitz inoltre, benché più volte io abbia cercato di agganciarlo, evade il tema forse sgradito dell'attacco tedesco alla Polonia all'alba del 1° settembre. Per lui esistono soltanto la dichiarazione di guerra britannica alla Germania il 3 settembre (la Francia non l'ha mai menzionata), la flotta di Sua Maestà britannica, da lui considerata una minaccia. Soldato e null'altro, il Grand'Ammiraglio in pensione è rimasto tale anche dopo il processo di Norimberga e i dieci anni di prigionìa scontati per crimini di guerra nel carcere berlinese di Spandau. Benché assai invecchiato fisicamente, Doenitz è rimasto psichicamente quello che era, vivo nel cervello, un freddo militare (mi hanno detto che la parola non gli piace, che si considera un soldato), durante tutta la conversazione che ho avuto con lui non ha mai denunciato un'ombra di commozione, di ripensamento, di umanità. Sì direbbe che non abbia mai avuto e tuttora non abbia una vitaprivata. La conferma viene dal modo freddo e distaccato con cui parla della morte dei suoi due figli maschi, Peter e Klaus, ambedue ufficiali di marina caduti in guerra. Gli domando come e quando apprese la notizia della loro morte, mi risponde: «Durante la guerra, naturalmente». Ed è tutto. Il suo consigliere stampa, un ex ufficiale di marina, mi racconterà più tardi a Lubecca che quando Doenitz fu informato della morte dei figli (in due occasioni diverse) si ritirò per un paio di minuti. Quando tornò dinanzi alle grandi carte navali appese alla parete, agli ufficiali di stato maggiore turbati e ammutoliti disse: «Dunque dicevamo», continuando a elaborare piani per i suoi sommergibili. «La politica inglese — continua Doenitz — era diretta "contro" la crescita del potere della Germania perché questa significava una diminuzione della grandezza britannica». Domando al Grand'Ammiraglio se prima dello scoppio del conflitto avesse avuto perplessità e ripensamenti, se avesse cercato in qualche modo di mettere in guardia gli alti comandi e Hitler da una guerra. La sua risposta è affermativa, ma priva di valutazioni politiche, quella di un soldato che aveva e ha tuttora in mente soltanto i suoi sommergìbili. Gli italiani «Naturalmente — dice — vedevo il pericolo di una guerra ed ero contrario al conflitto. Per questo nel giugno del 1939 esternai al capo di stato maggiore della marina, Grand'Ammiraglio Raeder. le preoccupazioni mie e dei miei ufficiali circa i rischi di una guerra immediata all'Inghilterra, nella quale noi avremmo potuto — a causa dell'inferiorità numerica dei nostri U-Boote — colpire l'Inghilterra soltanto con "punture di spillo". E pregai il comandante della marina di riferire a Hitler queste preoccupazioni. Raeder lo fece e il 22 luglio 1939 informò me e i miei ufficiali che Hitler aveva risposto: avrebbe fatto in modo che non ci fosse guerra con l'Inghilterra, perché avrebbe significato ! Germaniae». Insisto con Doenitz per sapere se — a parte le considerazioni di ordine puramente militare, tattiche e strategiche — avesse dubbi e incertezze d'ordine morale circa lo scoppio di un conflitto. Mi incuriosisce conoscere quali sensazioni, quali pensieri ebbe quando venne la notizia «Siamo in guerra», il r settembre, giorno dell'aggressione tedesca alla Polonia. Ma il Grand'Ammiraglio non sente e ritorna a parlare della marina e delle sue preoccupazioni unilaterali e meramente questo i la finis militari. «Le mie preoccupa- zioni furono confermate con la dichiarazione di guerra inglese — dice — e la mia unica cura allora fu quella di rafforzare quanto più in fretta possibile e con tutti i mezzi tecnici possibili il numero degli U-Boote per condurre la guerra contro l'Inghilterra». «Credeva lei, il 1° settembre, alla vittoria della Germania?», domando. Risposta: «Avremmo potuto vincere contro l'Inghilterra soltanto se avessimo posseduto le forze di U-Boote necessarie per realizzare i nostri obiettivi strategici». E mi spiega, invitandomi a controllare nel suo libro di guerra Dieci anni e venti giorni f«Già alla sesta edizione», mi dice) tutti ì dati statistici dei suoi programmi di armamento e di impiego dei sommergibili per «affondare più tonnellaggio di quanto l'Inghilterra potesse costruire». «Ciò — dice — avrebbe portato alla sconfitta inglese». Il Grand'Ammiraglio Doenitz fa capire (l'ha scritto anche nel suo libro) che la guerra avrebbe preso una piega del tutto diversa se allora Hitler e gli alti comandi gli avessero dato retta. «La costruzione degli U-Boote non ottenne nel piano globale degli armamenti tedeschi la necessaria precedenza — dice —. La nostra arma sottomarina non fu ingrandita a tempo». Si sente tuttora profeta incompreso in patria, mi cita lo storico inglese della marina Roskill che disse, a proposito delle perdite britanniche da parte della flotta sottomarina tedesca: «Nell'Atlantico abbiamo evitato per un pelo la sconfitta», e il capo dell'ammiragliato britannico. Lord Cunningham of Hyndhope, il quale disse: «Karl Doenitz è stato probabilmente il più pericoloso avversario dell'Inghilterra dai tempi di De Ruyter (famoso ammiraglio della flotta olandese nel XVII secolo, n.d.r.). La nostra grande fortuna fu che i suoi capi politici hanno conto del tenuto cosi poco suoconsiglio». Ricordando gli ultimi tentativi fatti da Mussolini nell'agosto del 1939 per evitare un conflitto, domando a Doenitz se credette allora a un'entrata in guerra dell'alleato italiano e se se l'augurava. Mi risponde secco, senza fronzoli: «Non vi credetti, i Ma quando purtuttavia av venne, fu naturalmente utile per noi, in particolare per quel che riguarda le relazioni strategiche nel Mediterraneo. E mi compiacqui che i sottomarini italiani venissero impiegati contro i nostri avversari». Per la flotta italiana (apprezzata dai militari tedeschi e lodata dallo stesso Hitler) Doenitz non spende una sola sillaba né di simpatia né di critica. Siaino sempre — nel nostro difficile colloquio — a questi benedetti ultimi giorni di agosto, con le nubi oscure che si addensano sull'Europa e ai primi giorni di settembre i quando la tempesta si scate- è o e e a a di na dapprima in Polonia e poi sui mari. Richiamo il vecchio signore a cercare nei suoi ricordi, a parlare di cose spicciole, ai suoi pensieri intimi di allora, gli pongo una triplice domanda: « Quale fu la sua reazione, di soldato, di responsabile comandante dei suoi equipaggi sottomarini e di padre di famiglia?», ma anche stavolta il Grand'Ammiraglio non devia, non smentisce il personaggio distaccato che è. Dice: «Come soldato e superiore era mio compito di avere un legame personale con i ranghi inferiori della mia truppa. Quanto più stretto è questo legame umano, tanto più è a prova di crisi. In sostanza, la forza di combattimento di una truppa è tanto più grande quanto più grande è la sua compattezza ideale». E la famiglia, la moglie, la figlia e i due figli? Il Grand'Ammiraglio non ricorda alcun particolare di quei giorni. Dice: «I figli erano occupati in un qualche posto o a scuola, mia moglie si trovava nei paraggi di Kiel, eravamo sovente separati, io ero molto impegnato in servizio». Della guerra insomma in casa Doenitz non si parlò. Doenitz tiene tuttavia, a precisare che «come padre di famiglia dovevo pretendere dai miei gli stessi sacrifici che chiedevo agli altri». «Nel settembre 1939 — do- mando a Doenitz — quale avvenimento l'ha riempita d'orgoglio e quale invece l'ha delusa?». Ormai, visto che il. Grand'Ammiraglio insiste a parlare soltanto di operazioni militari e a evitare qualsiasi considerazione d'ordine politico, cronistico, umano o familiare, invitandomi più volte a prendere dal suo libro le risposte alle mie domande, la navicella della conversazione ha preso la rotta voluta da Doenitz. Gli avversari Risponde: «Ero soprattutto felice e grato quando un comandante di U-Boote otteneva un successo contro un convoglio nemico, per esempio Guenther Prien che nell'ottobre 1939 affondò la nave da battaglia inglese Royal Oak a Scapa Plow. E ogni perdita di un U-Boote era per me un peso che doveva venire portato ogni volta che si doveva prendere in considerazione la necessità di una nuova azione». Karl Doenitz sembra un po' affaticato dalla conversazione. Fa sempre più fatica a sentire, la sua voce è sempre più tremula. Ci tiene però a precisare che si considera i condannato ingiustamente ! dal tribunale di Norimberga. «Il mio difensore, l'emerito giudice della flotta Otto Kranzbuehler e io — dice ora con voce ferma — siamo stati sempre convinti e lo siamo tuttora che a Norimberga sono stato condannato innocente». «In contrasto con l'opinione diffusa in Germania — precisa l'ultimo capo del "Reich" — sono stato assolto da tutte le imputazioni concernenti la condotta della guerra in mare. La mia condanna a dieci anni di carcere si basa sostanzialmente su una pretesa "condotta di una guerra di aggressione" perché nel settembre 1939 gli U-Boote da me dipendenti erano preparati per l'eventualità di una guerra. Il giudice americano a Norimberga, l'ex ministro della Giustizia Francis Biddle, perorò la mia assoluzione. Il mio difensore, Kranzbuehler, definì dinanzi alla stampa internazionale la mia condanna a dieci anni di carcere come "punizione minima per un innocente". Questa è anche la mia opinione». E continua a citare ex avversari di guerra che gli manifestarono comprensione e simpatia. «Negli Stati Uniti — dice Doenitz sempre con tono fiero e voce ferma — nel 1976 è uscito un libro di H.K. Thompson e Hanry Strutz, dal titolo Doenitz at Nuremberg: a reappraisal, war crimes and the military professional nel quale più di trecento illustri americani e anche personalità di altri Paesi affermano che io sono stato condannato innocente». Mi invita a scriverlo. «Qual è stato l'avvenimento più importante della sua lunga carriera?» domando ancora al Grand'Ammiraglio prima di accomiatarmi. «Il salvataggio di circa due milioni di soldati tedeschi che negli ultimi giorni di guerra, quando ero capo del Reich, le nostre navi trasportarono dal fronte orientale verso Occidente, salvandoli dalla prigionia» risponde il Grand'Ammiraglio. E' — in realtà — l'unico grande merito che anche gli avversari gli riconoscono, la sua sola azione ispirata a considerazioni non belliche ma umanitarie. Per il resto, da quando era giovane ufficiale nel 1918 a Fola fino a quando succedette a Hitler, e anche poi, da vecchio signore solitario, Doenitz ha sempre pensato e agito da soldato, fedele al suo principio dell'obbedienza. Dice nel suo libro: «Per un soldato che dal suo governo riceve l'ordine "Ora è la guerra e tu devi combattere", c'è naturalmente un solo dovere, quello di obbedire. Che la politica ha il primato sulle forze armate». Tito Sansa Karl Doenitz, nominato comandante in capo della Marina (1943), passa in rassegna gli equipaggi Karl Doenitz nella sua casa di Àumuehle, presso Amburgo