Ma nelle università si torna a studiare

Ma nelle università si torna a studiare La «provocazione» del professor Zevi Ma nelle università si torna a studiare La polemica sull'università è riesplosa con qualche anticipo sulla scadenza del 31 ottobre, legata alla ormai drammatica questione dei precari. Questa volta, sullo sfondo di un'estate politica incerta e con punte angosciose, l'occasione è stata offerta dalle dimissioni di Bruno Zevi dalla cattedra di storia dell'architettura a Roma: dimissioni motivate con la denuncia dello stato di sfascio e di ingovernabilità in cui si trovano tutti gli atenei italiani, a causa delle colpevoli inadempienze riformatrici di una classe politica giunta a oltre trenta anni di gestione della cosa pubblica senza essere riuscita a imporre una propria visione delle strutture e dei compiti di un'università necessariamente di massa, rispetto a una società industriale radicalmente trasformata. La denuncia di Zevi è argomentata e non superficiale. Parte dall'errore della liberalizzazione degli accessi di dieci anni fa e implica una autocritica, sofferta e penetrante, degli eccessi di una contestazione che, avallata nei primi mesi per lo slancio libertario che portava con sé, facilitò negli anni successivi una dequalificazione irrimediabile degli studi, con non poche sacche corporative. Si sofferma, con particolare cura, sulla degradazione degli incarichi d'insegnamento, una degradazione, per la verità, in cui le colpe del mondo docente prevalgono su quelle del mondo politico. Non riconosce nessuna attendibilità a quell'esamificio in cui troppo spesso si è ridotta l'università italiana, costretta a sfornare migliaia di laureati privi di qualunque prospettiva occupazionale. Come in tutte le provocazioni — e Zevi è un intellet tuale illuminista che ama la provocazione — c'è qualcosa di utile nel gesto del maestro dell'ateneo romano, cui è le gato un fecondo rinnovamen to della propria disciplina, un insegnamento mai accademico e mai ripetitivo. Ma dobbiamo osservare che il gesto di Zevi, il taglio per protesta con l'università italiana, la vergogna di chiamarsi professore, l'auspicio di strutture radicalmente rinnovate, giunge con qualche ritardo rispetto al processo di crisi della vecchia università, che ha toccato il suo acme negli anni immediatamente precedenti Se dovessimo fissare, in chiave di pacata ricostruzione storica, il momento in cui l'università italiana e in particolare l'università di Roma, di cui Zevi riflette tutte le ten sioni e tutte le contraddizioni, ha toccato il punto più basso della propria parabola, guarderemmo ai primissimi mesi del 1977, allorché si ebbero, all'interno dello «Studium Urbis... gli incidenti fra i sindacati organizzati e le varie gradazioni di «indiani metropolitani... inseritisi nell'università con una carica congiunta, e difficilmente separabile, di beffa e di terrorismo, in ogni caso di negazione assoluta, di eversione radicale. L'istituzione universitaria, come tale, vacillava. Franati i miti della contestazione, si rompeva quella zona di pacificazione o almeno di distensione che era derivata, per almeno quattro anni, dall'applicazione, purtroppo parziale e incompleta, dei provvedimenti urgenti del 1973, i soli che. pur nella loro limitatezza, la classe dirigente post-bellica fosse riuscita a varare in trent'anni di repubblica. Correttivi, in ogni caso, di alcune infatuazioni demagogiche e volti a ripristinare il sistema, compromesso o alterato, della selezione concursuale: presupposto per qualsiasi reclutamento di docenti che volesse sottrarsi alle tentazioni avanzanti in ogni campo, dello Stato assistenziale e caritativo. La formula dell'emergenza si delineava all'orizzonte. Le dispute fra scuole politiche diverse e inconciliabili, sul do cente unico e non solo su quello, accennavano a temperarsi nell'individuazione di alcuni punti dominanti, per la necessaria e improrogabile ri forma dell'università, su cui sembrava non difficile realiz zare un largo consenso. Fu anche quella un'occasione sprecata. Esistevano le condizioni politiche e parlamentari per una legge-quadro di pochi articoli, non per i «progetti-monstre», di tutto risolutori. sdd su tutto provvidenti, che poi dovevano cadere con la fine della settima legislatura repubblicana. In quel momento un gesto come quello di Zevi avrebbe avuto un senso. Oggi no. I sintomi di ripresa, all'interno dell'università, sono costanti. Gli indiani metropolitani non tengono più il campo, né a Roma né altrove. Quando ho visitato mesi fa, in qualità di ministro della Pubblica Istruzione, l'università di Padova, da tutti dipinta come il santuario della contestazione superstite, ho potuto constatare quanto la realtà, di uno degli atenei ancora più seri e impegnati d'Italia, sia diversa dalle raffigurazioni di comodo, strumentalizzate ad arte. La sinistra italiana non ripete più le sciocchezze di diecil anni fa. Il richiamo alla serietà degli studi è partito da un Giorgio Amendola almeno quanto dagli esponenti della tradizione laica e riformatrice. Un partito, come quello socialista, che si era distinto in visioni utopiche o avveniristiche dell'università italiana, ha corretto il tiro e non ha mancato, né mancherà, di dare un concorso costruttivo a quelle impostazioni riformatrici graduali, non onnicomprensive, per le quali mi batto da tanti anni, con alterna ma nel complesso scarsa fortuna. La scadenza dei precari potrà essere superata dal nuovo governo, provvisorio e di ripiego, che si è costituito con l'aiuto del Ferragosto se saprà tener fede all'esperienza di due anni di travaglio parlamentare e legislativo, che impongono la scelta coraggiosa di una «terza fascia» di ricercatori: non gli assistenti di .una volta, ma qualcosa di molto simile, adeguato alla realtà di un'università non più legata al regime esclusivo della cattedra. Uno schema di provvedimento di legge è già pronto; occorrerebbe evitare l'abitudine italiana di correre ai ripari all'ultimo momento, o anche l'altra abitudine di arrestarsi in anticipo di fronte a qualunque minaccia di ostruzionismo. Più grave è il problema della ricerca scientifica. Chi ha letto la lista dei ministri del governo Cossiga. vedendo la ricerca scientifica accanto ai beni culturali, avrà creduto per un momento che esistesse un vero e proprio ministero con portafoglio per la ricerca, magari da legare all'università. Errore ottico. La risuscitazione, per di più sbagliata sul piano protocollare, di un incarico speciale senza portafoglio obbediva alla necessità di soddisfare gli appetiti insaziabili delle correnti democristiane (di qui la scelta di un sindacalista) ma non aveva niente a che fare con un minimo di programmazione per la scuola e la cultura, sempre Cenerentole nei giuochi di potere. Di questo passo, nonostante l'errore nella scelta dei tempi, i gesti come quello del prof. Zevi sarebbero destinati a ripetersi e a moltiplicarsi, in un avvenire indeterminato. Giovanni Spadolini

Luoghi citati: Italia, Padova, Roma