La proprietaria del covo di Rieti fu costretta a nascondere le armi
La proprietaria del covo di Rieti fu costretta a nascondere le armi Nuovi sviluppi dell'inchiesta dopo la scoperta della base dei terroristi in Sabina La proprietaria del covo di Rieti fu costretta a nascondere le armi na Maria Pecchia ha detto ai magistrati di essere stata minacciata di morte daile Unità ombattenti comuniste se non avesse collaborato - La donna ha scagionato Paolo Lapponi ROMA — Ina Maria Pecchia, l'ex militante, di Potere Operaio proprietaria, insieme con Gian Pietro e Piero Bonano del casolare di Vescovio dove furono ritrovati un arsenale di armi e una montagna di documenti falsi più un «archivio», dice di non aver mai fatto parte delle Unità comuniste combattenti, ma di essere stata minacciata e costretta dai capi di questa organizzazione a nascondere in casa tutto il materiale, pena la morte. E' una rivelazione che pone in nuova luce l'inchiesta giudiziaria in corso. La Pecchia è stata interrogata mercoledì pomeriggio e ha finito di rendere le sue dichiarazioni dopo la mezzanotte. Assistita dal legale di fiducia, Giuseppe Mattina, la donna ha risposto a volte in modo netto e inequivocabile, a volte non in maniera convincente, ma ha senz'altro aperto uno squarcio di verità nella storia di legami tra Uccmafia calabrese e Brigate rosse. Ina Maria Pecchia ha nuovamente fatto i nomi di queli che lei considera i capi delle «Unità» e nello stesso tempo ha scagionato alcuni degli arrestati e dei ricercati: ha detto fra l'altro che Paolo Lapponi, l'ex genero dell'on. Mancini, non c'entra nulla nella storia. Ha infine contestato una parte delle dichiarazioni di Piero Bonano (lo ha definito persona poco attendibile) mentre ha confermato molte cose dette dal cugino Gian Pietro, suo convivente. Un interrogatorio fiume, iniziato con la lettura dell'ordine di cattura: i reati vanno dall'appartenenza a banda armata, alla detenzione di armi e munizioni da guerra, a ricettazione, al tentato sequestro dell'industriale Campilli, alla rapina al Club Mediterranée di Nicotera. Poi Ina Maria Pecchia ha raccontato la seconda puntata delle sue «memorie». «Non ero nelle lìce — ha detto — ma come molti die la pensano come me facevo parte di una "area di discussione" tra militanti dell'Autonomia, cani sciolti del movimento, ex appartenenti a Potere Operaio. Si parlava della ipotesi di passaggio alla lotta armata. Con noi si incontravano anche personaggi che agivano nella semiclandestinità di gruppi rivoluzionari. Nelle discussioni mi sono sempre dissociata dai fautori della presa delle armi per la lotta al sistema. Per questo fui anclie accusata di essere infida, o anche spia della polizia». Ina Pecchia ha continuato a parlare. Ha spiegato che i capicolonna delle Ucc. conosciuti dai nomi di battaglia o da soprannomi, le imposero, nonostante la divergenza di posizioni, di tenere nella casa rossa di Vescovio armi e altri documenti. «Ho dovuto subire; sono stata minacciata e ho ceduto». Ma quando furono portate le armi e chi le portò? le è stato chiesto. La donna non ha risposto; è stata evasiva: «Non lo so, non ricordo nulla» ha detto quasi piangendo. Ina Maria Pecchia ha poi fatto una accurata descrizione di «Leo», oramai identificato e ricercato dalla polizia. Il fantomatico capo delle Ucc è basso, bruno, capelli ricci, colto, preparato politicamente, un quadro dirigente in tutti i sensi. Anche su «Comancho» Ina Maria Pecchia ha fornito informazioni utili e ha parlato poi di «Agostino», forse il calabrese del clan Mancuso che deve aver svolto funzioni di tramite con i gruppi di riciclatori di denaro sporco e le bande del'anonima sequestri del Sud. Collegamenti con le Br? Pecchia ha confermato i contatti e i dissensi di «linea». Forse se ne può dedurre che le Ucc siano state per qualche tempo un ramo secondario dei brigatisti. Si capisce allora che il gruppo Pecchia-Bonano era di poco conto: loro erano stati «usati» perché possedevano un casolare di campagna, fuori mano, isolato, ed erano stati contattati perché provenienti da una matrice politica comune, dalle esperienze post-sessantotto avute anche con personaggi che pare siano passati nel mondo sotterraneo del terrorismo. La donna è stata interrogata su fatti specifici: ha parla¬ to della rapina al Club Mediterranée di Nicotera, ma sull'argomento non sono trapelate indiscrezioni. Nessuna contestazione ha riguardato il caso Moro e quello Varisco. Pecchia ha poi smentito un punto delle dichiarazioni di Piero e Gian Pietro Bonano che avevano fatto pensare ad un preciso collegamento tra Ucc e i redattori della rivista «Metropoli» (e in sostanza al gruppo Scalzone-Piperno-Negri). «Non è vero — ha precisato Ina Maria Pecchia che ci furono finanziamenti per 50 milioni dalle "Unità" a "Metropoli". Io di questa sto ria non so nulla e penso che loro abbiano mentito». Nel racconto l'ex aderente a Potere Operaio ha detto di non aver partecipato alla preparazione del tentato sequestro Campilli. ma ha minimizzato l'episodio del 12 luglio quan do, secondo i Bonano, il rapi mento falli per le reazioni del l'industriale. Pecchia ha par lato di un episodio quasi «goliardico». Una deposizione che. secondo i magistrati, convince in parte. Per questo Domeni co Sica ha intenzione di risentire la donna questa sera, anche per confrontare queste nuove dichiarazioni con quel le fatte mercoledì a Civitavec chia dal suo uomo, da Gian Pietro Bonano. Le indiscre zioni dicono che il Bonano ha aggiunto particolari importanti e ha spiegato ai giudici cose che potrebbero dare una svolta alle indagini. E' un'inchiesta strana: c'è chi parla a ruota libera, chi racconta molto ma si dissocia dai crimini di cui è accusato e chi nega tutto e tace. In mezzo a tante verità devono districarsi gli operatori della giustizia, Fabrizio Carbone Andrea Leoni
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