Girare un film nella terra del Negus

Girare un film nella terra del Negus RICORDI DI UN VIAGGIO IN ETIOPIA Girare un film nella terra del Negus Hailù. Abraham. Kébbedé: così mi pare che si chiamassero tre dei quattro o cinque piccoli etiopi arrivati un bel giorno dell'anno 1923. se ben ricordo, al Convitto Nazionale di Torino, in via Marna (oggi via Bligny) angolo via Garibaldi, senza destare troppa curiosità tra gli altri duecento convittori. Questi abissini, subito vestiti con la divisa regolamentare, si adattavano alla disciplina ed al ritmo di vita del collegio in pochi giorni, ciascuno nella classe appropriata secondo l'età e la maturità scolastica. I Convitti Nazionali d'un tempo, istituti statali, accoglievano giovani d'ogni provenienza e provvedevano ai loro studi con una certa larghezza di vedute e qualche compiacenza verso svaghi virili quali la scherma, il tiro a segno, le sfilate patriottiche: la divisa di parata, nera con alamari e monogrammi d'oro, piaceva ai ragazzi nascondendo le frustrazioni di quella mezza prigionia e il peso di una giudiziosa disciplina. Di questi Convitti Nazionali ce n'erano parecchi, dal fondo dell'italico stivale in su prima di arrivare a Torino: resta perciò un mistero l'assegnazione che dei piccoli etiopi, parenti stretti del futuro negus Haila Sellase. ad una sede così lontana dal luogo d'origine. Forse che il clima di Torino era stato giudicato il più simile a quello di Addis Abeba? Oppure, essendo il contrario, oscuri disegni avevano guidato la scelta della città subalpina? I giornali di qualche anno fa hanno toccato l'argomento a proposito d'altra parentela principesca etiopica che avrebbe dimorato a Torino prima della nostra conquista africana, ma non ricordo alcun cenno riguardante i giovani ospiti del Nazionale quando, ormai giunto al terz'anno di liceo, vi abitavo anch'io. A noi licenziandi era concessa una certa libertà di movimento e di contatti con le classi inferiori, talvolta sostituivamo qualche istitutore assente nelle camerate o nei cortili di ricreazione: questo spiega come io abbia potuto avvicinare sovente quello che pareva il più sveglio dei ragazzi abissini, forse Hailù. sui dieci anni, che in fatto di gradevole aspetto e modi raffinati si distingueva tra i suoi compatrioti e stupiva piccoli e grandi col suo amabile contegno. Basti ricordare che fin dalle prime ore del suo ingresso in collegio raccoglieva da terra ogni briciola di pane, ovunque si trovasse, e la riponeva come cosa sacra, dopo averla baciata, su qualche davanzale o sporgenza del muro. Così era stato allevato e si stupiva con angelico sorriso che tutti noi non facessimo altrettanto. Nei giochi era vivacissimo e ancora risento il trillo acuto della sua voce che si alzava sul rumore confuso dei compagni durante la ricreazione. L'avrei rivisto coi suoi compatrioti l'anno seguente, quando il ras Tafari, non ancora noto come Haila Sellase venne a Torino a far loro visita e il Convitto Nazionale gli offrì un rumoroso saggio di scherma che molto piacque al futuro Re dei Re. E' probabile che, in seguitò, questi incontri amichevoli abbiano aggiunto qualche motivo di perplessità allo scarso entusiasmo che nutrii per la guerra d'Etiopia: anche se ebbi a soffrire di non potervi partecipare per ragioni familiari più forti dello spirito d'avventura e della curiosità per lontani paesi. Più tardi, a conquista avvenuta, mi avrebbe condotto in Abissinia in veste di scenografo una pacifica impresa cinematografica, ed è in questa comoda occasione che feci una rapida e densa esperienza di cose africane. Manco a farlo apposta, a Napoli, sul bastimento in partenza per il Mar Rosso, c'era la «quindicina» di un casino destinata ad Asmara. un manipolo di donne che. a dire il vero, tennero contegno ineccepibile per tutto il viaggio risultato, nel complesso, piuttosto noioso. Soltanto la sosta notturna a Porto Said ha lasciato qualche graffio nella memoria: comici e disgustosi i venditori di bastoni, di scudisci, che offrivano la merce agli italiani gridando «commendatore, commendatore, manganello fascista!...» e quelli che mormorando «scandaluse. scanda- luse... » cercavano di spacciare per pornografiche costose buste di fotografie qualsiasi. Dopo mezz'ora di sosta qualcuno assicurava di conoscere un posto dove con spesa modica si assisteva agli amori di un asino con una fata. Si poteva tentare l'avventura? E se nel frattempo la nave fosse partita? Meglio restare in vista del bastimento, e limitarsi a piccoie compere nei negozii aperti tutta la notte: è in tale occasione che acquistai un pigiama di seta con su ricamato un drago, rivelatosi indistruttibile. * * Anche il viaggio in camion da Asmara ad Addis Abeba mi ha lasciato ben pochi ricordi. Vedendo adesso alla televisione quegli stessi luoghi divenuti campo di scontri fra eritrei ed abissini ho creduto di riconoscere certi momenti, certi orizzonti, della strada d'allora, ma irripetibile è l'emozione provata in quel viaggio vedendo una tribù di scimmie che tenendosi per mano, genitori in testa e bambini in fila secondo la statura, approfittava d'un rallentamento della colonna di camion per attraversare la strada. Rivedo lo sguardo ansioso, sotto le fronti corrugate, delle scimmie anziane: lasciateci passare, non fateci del male. Questo sentimento d'una natura violata, d'un antico ordine turbato, avrebbe accompagnato, con tutta la sua melanconia, la mia breve avventura africana. Né Addis Abeba. per quel poco che vi restai, appariva tale da modificare questo stato d'animo fatto d'angustia, estraneità, umiliazione: bella la capitale d'Etiopia, belli gli abitanti, «le» abitanti, comodo l'albergo, ma nulla poteva alleviare quell'ombra di rimorso che mi rattristava fin dal principio del viaggio. Destinati a metter le tende in un certo punto della regione chiamata Sidamo, eravamo partiti con una colonna di camion che portava anche dei ragazzi indigeni mandati a lavorare dalle stesse parti, fra scene di disperazione di madri, sorelle, zie. uscite di senno come se quei ragazzi fossero avviati al macello. Diretti al sud col nostro carico di tende, legname, frigorifero, attrezzi teatrali, carburante, saremmo andati per strade e piste sicure in zone pacificate da un pezzo. Giunti incolumi a destinazione nei pressi d'una piantagione di caffè tenuta da un belga insabbiato laggiù da tanti anni, già incaricato di aiutarci ad opera di nostri uffici ministeriali, prendevamo possesso del luogo dove accamparci, un terreno pianeggiante dominato dallo scheletro di un immenso baobab e reso impraticabile da una folta vegetazione. Il piantatore belga ci avrebbe prestato qualcuno dei suoi uomini per ripulire il terreno ma costoro, già fiacchi per natura, una volta capito di avere a che fare con' dilettanti danarosi e sentimentali, la tiravano più in lungo che mai. così il padrone minacciava di toglierceli dichiarando che laggiù eravamo in Etiopia e non a Roma dove si prendevano stipendi anche senza far niente. Fra un contrasto e l'altro, in seguito a messaggi e segnalazioni il cui meccanismo mi è sempre sfuggito e che provavano una discreta collaborazione tra vecchie autorità indigene e nuovi gerarchi italiani, ad un certo punto di questa storia usciva improvvisamente dal folto della foresta, bellissima nell'abito candido su uno schiumante cavallino nero, orgogliosa dell'ampio cappello Borsalino e d'uno spettacoloso revolver americano alla cintura, una reincarnazione etiopica di San Giorgio giovinetto, venuta a sentite se ci occorreva qualcosa. Lo scortavano a piedi ed a rispettosa distanza due barbuti dignitari con la mantellina nera, armati di mitragliatori Thompson veduti sino ad allora soltanto nei film. Mentre il nostro interprete, dopo essersi sprofondato in inchini davanti a colui che era il figlio del signore più potente della regione, gli spiegava la nostra necessità di ripulire un tratto di boscaglia, due esseri umani seminudi sbucavano di corsa dalle frasche e. sorpresi dalla nostra presenza e soprattutto dal signore a cavallo che li aveva visti con la coda dell'occhio cercavano di allontanarsi alla svelta ma un ordine del San Giorgio li fermava e li chiamava indietro. Eran due poveretti di mezza età. di razza Galla, pelle ed ossa, diretti ad un mercato lontano decine e decine di chilometri per vendervi un po' di burro che, avvolto in foglie, ciascuno portava in cima ad una lunga canna, chissà perché, per fargli prendere aria, per equilibrarsi nella corsa? Che il principe giusto, il signore magnanimo li perdonasse se non l'avevano riconosciuto e non si erano fer-1. mati a rendergli omaggio., sarebbero stati più attenti un'altra volta... che fossero lasciati andare, avevano famiglia, dei bambini... San Giorgio li ascoltava con aria infastidita e poi decideva, udito anche il parere dei suoi barbuti dignitari, che si fermassero a lavorare da noi. invece di andare al mercato. Una pena lieve, per quella volta, la prossima mancanza l'avrebbero pagata' più cara. «Grazie, grazie, signore magnanimo, non lo faremo più. saluteremo sempre, staremo qui a lavorare per lo straniero tutta la vita, lode a te. scrigno d'ogni saggezza... ». Resa giustizia, contentati gli italiani del cinematografo (... sarebbero poi giunte le attrici, laggiù, vere bellezze bianche coi capelli biondi, quale onore!) il cavaliere e la sua scorta rientravano nella' foresta, mentre i due condannati cominciavano a spostare qualche festuca. La notte stessa, rimpinzati di carne in scatola, di gallette e marmellata, sarebbero giustamente fuggiti verso il mercato a vendervi i loro pacchetti di burro. Italo Cremona

Persone citate: Italo Cremona, Negus Hailù, Resa, Thompson