Ma alle Regioni non piace il folk di Roberto Leydi
Ma alle Regioni non piace il folk IL CONVEGNO SUGLI ENTI PUBBLICI E LA CULTURA POPOLARE Ma alle Regioni non piace il folk TORINO — Il Convegno che l'Amministrazione provinciale di Torino ha promosso nei giorni scorsi per mettere a confronto esperienze diverse nel campo della ricerca e della documentazione sulla cultura popolare, nell'ambito degli enti pubblici italiani, merita, al di là della cronaca, alcune considerazioni. Intanto ha dimostrato quanto molti intuivano o già sapevano e che. cioè, esiste un po' dappertutto, in Italia, oggi, una spinta (che spesso è una spinta dal basso), verso una attenzione nuova, viva, spesso addirittura pressante per le manifestazioni che, con un termine non privo di equivoci, si possono dire «folkloriche». Si tratta della conseguenza inevitabile di un vasto movimento culturale e politico che. del resto, è in atto, in Italia, da alcuni anni e che soltanto occasionalmente e marginalmente ha trovato la via per soluzioni istituzionali, per riconoscimenti culturali «ufficiali». E ancora ha dimostrato cne questa spinta cerca, giustamente, di coinvolgere gli enti locali, comuni, province, regioni, come interlocutori primari, di fronte al tradizionale atteggiamentodello Stato verso questi problemi. Non c'è dubbio che gli enti locali e in primo luogo, le regioni siano, di fatto, gli interlocutori principali e lo debbano essere. Ma se si scorre l'elenco dei partecipanti non si può non scoprire, con sorpresa (e preoccupazione) che ben poche regioni hanno assicurato al Convegno la loro partecipazione. C'erano la Toscana, l'Umbria, la Lombardia, la Liguria e, un po' di scorcio, l'Emilia Romagna. Di fronte molte province, alcuni comuni. E, ancora, è risultato chiaro che, fino a oggi, quattro regioni soltanto hanno preso iniziative concrete (e, cioè, assunto responsabilità dirette): la Sardegna (però fisicamente assente), la Lombardia, l'Umbria e la Toscana. Queste quattro regioni, pur a uno stadio differente di realizzazione operativa, propongono quattro modelli diversi della soluzione del problema. La soluzione dell'istituto etnografico regionale la Sardegna, di un servizio direttamente gestito dalla Regione Lombardia (e Sardegna e Lombardia sono in funzione ormai da alcuni anni), di un, coordinamento regionale sulla base di centri provinciali la Toscana (e i centri, attualmente, fanno capo alle prò-, vince di Lucca, Siena, Grosseto e al comune di Cortona, con un esperimento importante di collaborazione con la confinante Umbria), di un centro regionale appoggiato all'Università di Perugia l'Umbria. Quattro soluzioni rispondenti a realtà diverse e a criteri diversi, da discutere, da confrontare. Ciò che ha colpito è stata l'assenza della Regione Piemonte, per ragioni che andrebbero, io credo, spiegate, cosi, come, in generale, è stata sentita una latitanza un po' diffusa proprio delle istituzioni e degli enti locali piemontesi, con la conseguenza dì lasciar andare un po' allo sbando lo stesso convegno che ha avvertito molto bene l'esistenza di problemi e forse contrasti dietro la facciata ufficiale della manifestazione. Molti, giustamente, hanno colto, dietro questo scarso impegno delle regioni (a parte quelle sopra ricordate che. invece, il loro impegno l'hanno espresso già nei fatti), un rischio. O. meglio una somma di rischi. Per esempio il pericolo di un proliferare generoso ma dannoso di piccole iniziative, spesso votate al localismo, impegnate a difendere realtà marginali e minime e tese soltanto a ottenere contributi finanziari regionali che, per la natura dei fatti, diventano sussidi in qualche caso anche clientelari. O, ancora, sul versante opposto, la possibilità di una rivincita ministeriale e statale, soprattutto in questi mesi delicati che dovrebbero vedere l'applicazione di quella famosa legge 382 che trasferirebbe altre competenze alle regioni. Tutti sappiamo quante resistenze ancora esistano a Roma verso l'applicazione completa dell'ordinamento regionale e non è pessimismo immaginare che proprio là dove le regioni si rendono latitanti (pur avendo competenza) può realizzarsi il ritorno dalla finestra di quel centralismo che ufficialmente esce dalla porta Un convegno sbagliato, allora? Certamente no, perché in effetti il Convegno ha fotografato la realtà. Forse si sarebbe voluta, proprio per lo sfondo di ombre e pericoli contro cui nascono centri locali di documentazione e studio della cultura popolare, una preparazione più lucida e una conduzione politicamente più responsabile. Comunque i ricercatori che sono disposti, finalmente, a uscire dalla vecchia livrea dell'intellettuale italiano per sporcarsi le man: con la «politica» hanno avuto modo di contarsi e riconoscersi. E questo, io credo, è già qualcosa. Roberto Leydi
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