Al Maggio, su una nave corsara di Massimo Mila

Al Maggio, su una nave corsara FINALMENTE RIESUMATA «LE ZITE 'N GALERA» DI LEONARDO VINCI Al Maggio, su una nave corsara Il settecentesco incunabulo dell'opera buffa napoletana in scena alla Pergola nella revisione e regia di Roberto De Simone - Uno spettacolo di tutto riguardo e un fatto teatrale di gran classe affidato a un'ottima compagnia di cantanti attori DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE FIRENZE — «Povero Vinci!», scriveva nel 1732 11 Metastasio a Marianna Bentl Buigarelli. «Adesso se ne conosce il merito, che vivente si lacerava-. E qualche decennio dopo l'Algarotti esaltava il valore che veniva a ricevere 11 recitativo, 'rinforzato dall'orchestra», nell'ultimo atto della Didone. Povero Vinci davvero, che in tanto concorso di scoperte, riesumazioni e rivendicazioni che fiorisce nei teatri oggidì, mai nessuno s'era avveduto di lui, che pure Andrea Della Corte aveva diligentemente studiato, proprio In questo incunabulo dell'opera buffa napoletana. Le zite 'n galera (vuol dire: gli sposi sulla nave corsara), che oggi finalmente il Maggio Musicale Fiorentino ha messo in scena allu Pergola nella regia e revlslo ne di quel competentissimo campione del teatro napole tano che è Roberto De Simone, recentemente insignito del Premio Curcio per le sue realizzazioni della Gatta Cenerentola e d'altri simili spettacoli. Ora che abbiamo conoscenza diretta di quest'opera (d'u na decina d'anni precedente alla Serva padrona) dovremo forse proprio liquidare la tesi della storiografia romantica che vede le origini dell'opera comica in spettacolini popolari di teatrini umili, in polemica contro la boriosa tirannia dell'opera seria. Qui, invece, vediamo l'opera buffa spiccarsi dal gran tronco dell'opera seria, come Eva dalla costola di Adamo. Le zite 'n galera non è uno spettacolino di poche pretese da recitarsi alla buona sulle tavole d'un teatro popolare. E' una grossa macchina teatrale, della durata di quattro ore, con pretesti di messa in scena grandiosa, almeno nel finale, all'apparizione della nave corsara (benissimo realizzata nelle scene di Mauro Carosi, allestimento scenico di Raoul Farolfi). Il libretto, di Bernardo Saddumene, è dedicato alla viceregina del regno di Napoli: figurarsi se si sa rebbe offerta a una dama di sangue vicereale una farsac eia da teatro postribolare! Certo, c'è l'irruzione irresi stibile del realismo popolare, c'è l'osservazione dei personaggi e della vita vissuta, c'è il fatto determinante del dialetto e dei frequenti passi di recitazione senza musica. Ma quando la musica c'è, è quasi sempre di stile alto, da opera seria. Nulla di popolare, salvo la patetica canzone Vurria reventare suricillo, posta all'inizio, quasi esternamente e in esergo all'opera. La vena comica è scarsa, enormemente soverchiata da quella patetica (il classico tono minore napoletano), e da quella aulica, belcantistica. dell'opera seria. Basta il fatto, inconcepibile nell'opera comica, e normale nell'opera seria, di tre personaggi maschili con voce di castrato. Il regista li ha affidati a falsettisti, Gian Franco Mari, Giuseppe De Vittorio e Maurizio Paolino, sdoppiando 1 primi due e inventando dei personaggi astratti, («il canto elegiaco di Carlo, il canto drammatico di Carlo, l'amoroso canto di Titta'), ai quali sono assegnate le grandi arie belcantistlche in piena regola d'opera seria, che sarebbero di Carlo e di Titta. E' questo l'unico errore d'una regia per altro ammirevole di sapienza teatrale e, ovviamente, di spe¬ cifica competenza partenopea. Affidando i personaggi reali alla voce artificiosa dei falsettisti, si accentua quella -punta di ironia' che il regista crede di avvertire nel fatto di «dare la voce di un castrato a un personaggio che rappresenta il tipo di maschio meridionale». Nel Settecento non c'era ombra d'ironia nell'affidare parti virili eroiche a castrati, altrimenti tutto il melodramma dell'epoca sarebbe un'orgia di ironia. L'equivoco sta nel pensare la voce di castrato nei termini dei moderni falsettisti (eppure 11 De Simone lo sa e lo scrive che era altra cosa). La voce di castrato era splendida, piena e gloriosa, senz'ombra di ridicolo artifizio. Qui bisognava avere il coraggio di dare i tre personaggi alle donne che ne sostengono valorosamente le prodezze belcantistlche. Ma, certo, dove trovare cantanti che sappiano gorgheggiare intrepide ai vertici della tessitura, e nello stesso tempo recitare buffonescamente in napoletano strettissimo, soprattutto considerando che delle tre brave artiste due sono d'origine straniera, Anastasia Toma- szewska Schepis e Carmen Gonzales, la terza essendo Wilma Vernocchi, italiana ma romagnola, salvo errore? Però, spezzare quei personaggi ne distrugge l'unità psi cologlca, e distrugge anche l'unità dello spettacolo, ac centuando l'impressione, denunciata dal De Simone, che esso si svolga «quasi su due piani». Mentre invece, per comprendere bene come andarono storicamente le cose, si sarebbe dovuto vedere la commedia popolare dell'opera buffa insediarsi proprio nel gran lettone con baldacchino del melodramma serio. A parte questo, uno spetta colo di tutto riguardo e un fatto teatrale di gran classe, Belle le scene solari della commedia e un po' manierati 1 costumi (di Odette NicoletU), almeno nella parte fittizia, che viene a costituirsi come la zona d'ombra dello spettacolo, con pennacchi, lustrini, strascichi sostenuti da paggetti, e via baroccheggiando. Bravi i numerosi interpreti, tra cui, oltre a quelli già citati, Giorgio Tadeo, capitano dei corsari, Gennaro De Sica (il barbiere Colagnolo), Alberto Rinaldi, Virgilio Villani. Più Adriana Martino, nella parte che le sta a pennello della giovane che si traveste da uomo (Peppariello) per ritrovare il suo infedele Carlo, e Adele Sposito, probabilmente napoletana di buon sangue, nella parte di Ciomma che, inutilmente amata da Carlo, s'innamora naturalmente di Peppariello. Trionfatori della serata il robusto baritono Giuseppe Barra nei panni femminili di Meneca Vernino, ricca vedova innamorata di Peppariello, e Gennarino Palumbo, in quelli d'un fraticello gentile e ruffiano. Quando questi due sono in scena, la tradizione del teatro napoletano rivive in tutta la grandezza della sua irresistibile vis comica. Barra canta, recita e balla con versatilità universale. Palumbo ha quasi solamente da recitare; ma come recita! Che ritratto dell'anima napoletana i gesti delle sue mani! E quando ha da cantare qualcuno dei numerosi (e belli) recitativi, o da partecipare al gran concertato finale, se la cava niente male. Il direttore 'Massimo De Bernart governa ottimamente l'orchestra d'archi con trombe oboi e corni, piti un fagotto, una chitarra e una viola da gamba in scena. Dio sa se quello che abbiamo sentito c'è proprio tutto nella partitura di Vinci. Anche quella chitarra cosi sapientemente suggestiva? Ma De Simone ha buon gioco a ricordare che opere di questo genere non pretendevano certo, nemmeno al loro tempo, un'assoluta fedeltà testuale, e qualsiasi arricchimento, purché di gusto, era benvenuto. Successo crescente, nonostante la lunghezza wagneriana dello spettacolo e la venerabile barba di molte delle nobili arie con da capo; il primo atto è francamente pesante, poi i nodi si sciolgono, man mano che il sopravvento della commedia sul melodramma serio si afferma, tinoalla rivelatrice contraddizione finale dell'ultima aria di Carlo, ravveduto e pentito, •Si datemi la morte», che De imone ha dovuto per forza far cantare al falsettista, e non al suo doppio in pompa magna. Massimo Mila

Luoghi citati: Firenze, Napoli, Pergola