Le ultime folgori dei padri etruschi

Le ultime folgori dei padri etruschi RIAPERTO IL MUSEO VATICANO Le ultime folgori dei padri etruschi Forse per i lettori piemontesi e liguri il nome «Etruschi» non è evocativo e suggestivo come per chi è nato nel cuore della vasta area dell'Italia centrale sulla quale — dal VII al TTT secolo a.C. circa — questi nostri misteriosi antenati esercitarono la supremazia, e lasciarono tracce profonde della loro cultura — una cultura probabilmente composita del retaggio orientale — se è vero che vennero in Italia dall'Asia Minore o da Lemno o dalla Grecia — e della civiltà che trovarono nella penisola. Le strade consolari che si irradiano da Roma e rispecchiano la visione etnocentrica dell'Urbe, furono tracciate quando la loro potenza era ormai tramontata; eppure, in qualsiasi direzione le percorriamo, attraversiamo territori etruschi, riscontriamo tracce etnische nella toponomastica, nelle mura, nelle porte, nelle necropoli, negli impianti portuali e minerari. Su l'Aurelia, a Pirgi sono state trovate recentemente tre .làmine d'oro che recano incise in punico e in etrusco le dediche d'un tempio: un re di Cere ringrazia la dea punica Astarte per grazia ricevuta, una testimonianza storica e politica molto significativa. A Cerveteri, le tombe a tumulo offrono uno schema urbanistico e un'idea dell'interno delle case: a Tarquinia, .gli affreschi — raro esemplare di pittura del mondo antico — riproducono con sorprendente vivezza le scene della vita d'ogni giorno, i banchetti, gli sports, la caccia, la pesca, la danza, gli strumenti musicali, le navi; più a Nord, Populonia, Vetulonia, Roselle, Volterra, per non citare che i nomi più noti dalla foce del Tevere a quella dell'Arno, rappresentano altrettante scolte etrusche dai colli al mare. Lungo la Via Cassia, ecco Veio, espugnata dopo dieci leggendari anni d'assedio, dopo che Camillo ebbe convinto la dea tutelare a disertare a favore dei romani, offrendole un tempio sull'Aventino; Tuscania, Norchia, Castel d'Asso, dove su scabre pareti di roccia erosa dai millenni sono tracciati, come un. disegno a matita semi cancellato, i frontoni di templi, le facciate di case inesistenti, che nascondono tombe rupestri maestose nel silenzio delle valli. E poi Bolsena, Orvieto, Chiusi, Cortona, Arezzo, Fiesole; lungo la Flaminia e nella Valle del Tevere, Civita Castellana, Todi, Perugia. Bologna e, su l'Adriatico, Spina; a Sud, la penetrazione etnisca si spinse in Campania a Capua, a Pompei, a Salerno. I campi che si stendono ai lati di queste strade gli Etruschi li hanno forati con pozzi collegati per centinaia di metri da cunicoli sotterranei di drenaggio, li hanno solcati di cai nali d'irrigazione, contendendo la terra alla palude e alle foreste: lo testimoniano gli attrezzi di ferro e di bronzo, non dissimili da quelli attualmente in uso, zappe, vanghe, falci, nonché il contributo in natura che, a quanto scrive Tito Livio, le città etrusche alleate fornirono a Scipione Africano quando, nel 205 a.C, allestì un corpo di spedizione contro Annibale, rifiutandosi di pesare sul bilancio dello Stato: Cere dette grano, Populonia ferro, Tarquinia le vele, Volterra legname, Arezzo armi, Chiusi e Roselle abeti, le città latine soltanto volontari. Le vestigia della ricchezza mineraria etnisca si riscontrano nelle fornaci, nelle scorie ferrose rimaste (quelle di Populonia si calcolano a due milioni di tonnellate) — l'Elba, dicono, si chiamò Aitalia (da aitbaloòs, fumò) per la nuvola di fumo delle fonderie che l'avvolgeva per chi la vedeva da terra — come accade oggi a chi si imbarca a Piombino. Spesso il paesaggio etrusco è rimasto immutato: valloni prò fondi nei quali scorre un fiu me, pareti rosse di tufo, abitati alti sul ciglio di rocce scoscese da questa terra, nonostante la distruzione operata dal tempo e dal saccheggio indiscriminato degli scavatori clandestini, sono uscite le sculture, i bronzi, i gioielli, le ceramiche greche dipinte che riempiono le vetrine dei musei di tutto il mondo. Ora, 'dal 12 giugno, si è fi nalmente riaperto al pubblico, per lo zelo del nuovo direttore 'delle Gallerie Pontificie, prof. Pietrangeli, e del direttore del reparto etrusco, prof. Roncalli, l'antico Museo Etrusco Gregoriano vaticano che, in alcune parti, era chiuso da 13 anni. E' una visita affascinante non solo per ciò che è esposto, ma anche perché esso costituisce un esempio del collezionismo e dei criteri di scelta e disposizione dei reperti in un momento iniziale di una scienza nuova, l'archeologia. Il museo fu fondato nel 1837 ma già nel 1820 il cardinale Pacca, Segretario di Stato, aveva promulgato la prima legge di vincolo degli scavi e protezione del patrimonio artistico, legge, ovviamente, non rispettata: fioriva già il mestiere del tombarolo. Nel culto dell'antico che già dal Rinascimento dominava la cultura europea, gli Etruschi occupavano un posto secondario: le loro statue, improntate a vigoroso realismo, non avevano la perfezione ideale di quelle greche, il materiale usato — terracotta, nenfro, tufo — non era nitido e levigato come il marmo; ma nel 1836 la scoperta della Tomba Regolini Galassi (del VII secolo a.C) aveva sorpreso il mondo con il suo corredo funerario: un trono, un carro, numerosi scudi incisi di bronzo e vasellame d'argento, favolosi pettorali e bracciali d'oro indicavano un gusto, un tenore di vita, la frequenza di importazioni dall'Asia Minore, insospettate in un'epoca in cui sparse capanne su sette colli incominciavano a coagularsi in una città che avrebbe dominato il mondo. In quella città i re etruschi, Tarquinio Prisco e Tarquinio il Superbo, lasciarono l'impronta d'un dominio intelligente: costruirono la Cloaca Massima, sfruttarono l'approdo dell'isola Tiberina come nodo stradale e centro commerciale tra il mare e l'interno — e non solo, come in tempi arcaici, per uno scambio di sale contro pelli e lattici- ; ni, ma per l'importazione di opere artigianali dell'Egeo orientale in cambio di materie prime, legname, metalli; eressero le prime opere difensive, i primi templi — quello sul colle Capitolino, dedicato a Giove, fu inaugurato l'anno primo della Repubblica, nel 509 a.C. Non tutte le componenti etrusche nella civiltà romana' nel nostro stesso spirito — sono state individuate: dei famosi libri sacri etruschi, su i fulmini, sulla consultazione/ delle viscere e sul volo degli uccelli, ci sono pervenute notizie tardive, probabilmente modificate, attraverso autori latini. Vennero a Roma dagli etruschi i costumi dei magistrati, la sedia curule, i 12 littori con i fasci e le scuri, i 12 Dei Consenti, collaboratori di Giove e il 12 come numero fatidico; < > vennero dall'Emma i giochi: la palla, i dadi, gli astragali, inventati, dice Erodoto, per ingannare la fame durante una carestìa; abbiamo notizie su le folgori, divise in tipi a seconda; dell'ora, del luogo, del destina-1 tario: una statua bronzea di Marte da Todi, esposta nel Museo, fu probabilmente sepolta ritualmente perché colpita dal fulmine, dopo le debite cerimonie purificatrici; è stato trovato a Piacenza un fegato dibronzo diciamo cosi didattico, e cioè suddiviso in zone, a eia-' scuna delle quali presiede un dio; quel fegato rispecchia il cosmo, probabilmente, faceva parte del bagaglio d'un aruspice. Il cielo era suddiviso in sedici parti, otto a destra, otto a sinistra guardando verso Sud; i segni a sinistra erano propizi perché venivano dall'Oriente; probabilmente, nei libri si trovavano anche norme giuridiche, regole di ingegneria idrica e di agrimensura, assimilate e perfezionate dai romani. Agli etruschi, alla loro indiscussa arte divinatoria si fece ricorso in tutti i momenti difficili nella storia di Roma: presagi funesti interpretati dagli etruschi, secondo Cicerone, precedettero la congiura di Catilina. E anche in epoca di cristianesimo trionfante, nel V secolo, l'armata dei Visigoti invasori comandata da Alarico fu deviata da Narni perché i sacerdoti etruschi scatenarono' un uragano. A Roma, durante i due anni di assedio (408-410 J.C') si tentò di fare lo stesso evocando gli esangui numi capitolini a soccorso dell'Urbe in agonia; le debite cerimonie furono compiute ma inutilmente. Il papa, Innocenzo, fece finta di non saperlo. Lidia Storoni