«Come diventai prete operaio»

«Come diventai prete operaio» Una crisi di coscienza «Come diventai prete operaio» La testimonianza di don Carlo Carlevaris alla tavola rotonda'su «Clero e industria» Prete operaio, perché? Come nasce la vocazione di tanti sacerdoti in tuta che, ormai da tempo, servono la Chiesa immersi nella realtà della fabbrica, fianco a fianco con i lavoratori alla catena di montaggio? Una risposta lucida e illuminante all'intervento è stata fornita l'altro pomeriggio da un pioniere tra i preti-operai torinesi: don Carlo Carlevaris, chiamato a portare la propria testimonianza alla tavola rotonda per la presentazione del libro •Clero e industria a Torino». Al dibattito, organizzato dall'Istituto di Scienze Politiche sul tema •Dai cappellani del lavoro ai preti operai, trentacinque anni di dialogo tra Chiesa e mondo del lat)oro»,hanno partecipato anche i docenti Barbano e Traniello, come presentatori del libro, con Domenico Sereno Regis e Mario Ghedda in veste di testimoni. L'esperienza vissuta in prima persona e riferita con estrema sincerità da Carlo Carlevaris ha finito per valicare i confini dell'analisi storica, diventando insieme autobiografia e testimonianza dei difficili approcci della Chiesa con alcuni settori del mondo operaio. Cappellano del lavoro alla Fiat, alla Lancia e poi alla Michelin tra gli anni '50 e '60, Carlo Carlevaris è partito da quelle prime esperienze per rievocare la maturazione progressiva di dubbi e contraddizioni che lo portò ad indossare la tuta nell'azienda metalmeccanica in cui oggi lavora. «Ero partito, con altri sacerdoti, come un missionario pieno di ardore, ma ben presto mi accorsi di quanto fosse difficile la mia posizione all'interno della fabbrica. Come ospiti, avevamo dei limiti di correttezza alla nostra azione, e gli operai ci consideravano comunque dalla parte del padrone. Limitarsi alla parola religiosa diventò quasi subito impossibile». Erano gli anni caldi degli accordi sindacali separati, dell'isolamento della Cgil in ambienti di lavoro con relazioni industriali sempre aspre, che a volte sfociavano in licenziamenti o in trasferimenti. Dalla rievocazione di Carlo Carlevaris emergono le prime contraddizioni: .Quasi tutti gli operai si aspettavano un cappellano almeno "mediatore" con l'azienda per le situazioni più difficili Come spiegar loro che questo non era possibile?». .Quando l'operaio, accettando il discorso del Vangelo, pretendeva giustamente di calarlo nella realtà quotidiana, ecco la contraddizione ingigantirsi. Farsi carico di problemi concreti significa perii cappellano diventare sindacalista, o addirittura fare politica: un ruolo che in teoria non doveva essere il nostro. Diventammo così, agli occhi della maggior parte dei lavoratori, una figura inutile; molti, richiesti di un giudizio, ripetevano che il prete avrebbe dovuto lavorare al loro fianco, per poter capire veramente i problemi del mondo operaio». Da una franca spiegazione con altri cappellani del lavoro. Carlo Carlevaris fu convinto a proseguire comunque nella sua esperienza: «Dissi loro che così non potevo continuare. Molto onestamente essi risposero invitandomi a non lasciare la fabbrica: se era giusto che qualcosa cambiasse, ebbene ciò sarebbe accaduto». Ma le contraddizioni e la stessa realtà di quegli anni furono più forti, segnando per don Carlevaris una nuova strada, poi seguita da altri sacerdoti. -Avevo capito che, in veste di cappellano, potevo soltanto portare in fabbrica la carità, ma non la verità. La carità era l'unica opera di mediazione possi bile, perché gradita a tutti: al ricco e al padrone, che si compra tranquillità per la propria coscienza, ed al povero o all'emarginato, die la riceve. Con questo compito divenni assistente della San Vincenzo alla Michelin, dove non davo noia a nessuno in un ruolo che non significa nulla». Pochi mesi soltanto, fino a quando Carlo Carlevaris decìse di ascoltare la voce della propria coscienza indossando la tuta da prete-operaio. Roberto Reale

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