ENIGMI PAKISTANI di Giorgio Manganelli

ENIGMI PAKISTANI ENIGMI PAKISTANI Islam, patria senza confini KARACHI - Viaggiare insegna che tutti gli uomini sono uguali; viaggiare insegna che tutti gli uomini sono diversi. Ho appena finito di rileggere il Milione, e ho imparato che tutti gli uomini sono fratelli e sono incomprensibili. Non si viaggia tra cose, palazzi, montagne, si viaggia tra uomini; ognuno nasconde itinerari, labirinti, parla con sé, nei propri sogni una lingua che non comprendiamo, ma di cui cogliamo le strane, struggenti modulazioni. Ogni arrivo è ingannevole: dovunque dogane, timbri, moduli da riempire; ma alle spalle di quei moduli si apre un universo insieme agevole ed enigmatico. Percorro una strada: ma è esattamente una «strada» nel senso in cui potrebbe esserlo a Roma, ed è. questa, una «città» come le città che ho imparato a conoscere in Europa? Il luogo pare identico, ma non sarà un travestimento di strada, di città? In che modo questi enigmatici fratelli vivono questi luoghi? Sono in un Paese mussulmano, nel Pakistan, e percorro una strada di Karachi che ha nome Shari'a Faisal. Si dà il caso che io conosca quella parola Shari'a: essa significa «via», e nulla parrebbe più ovvio, ma significa anche «via» come «comportamento secondo la legge del Profeta»; potrei avvicinarla al «la via. la verità, la vita» del Vangelo, ma io so che qui, in un Paese mussulmano, i due termini sono estremamente prossimi; per cui quella Shari'a non dà solo una indicazione toponomastica, ma consacra. Non è come dire «via Cola di Rienzo». L'europeo che si trova in un Paese islamico può avere per breve tempo l'impressione di essere in uno Stato, una nazione con qualche peculiarità, ma sostanzialmente analogo a quel ' qualunque Paese da cui proviene. Non è vero, e se ne accorgerà parlando con un libraio, con un «dottore», o leggendo uno dei giornali di lingua inglese, che fortunatamente sono assai numerosi in tutta l'Asia. Credo che sia essenziale capire i modi ingegnosi in cui ['altrove si nasconde sotto l'apparenza dell'ovvio, e che sia essenziale per intravedere almeno le linee del labirinto che è il mio fratello ignoto. 10 vengo da una nazione che coincide con un luogo geografico denominato Italia. Si presuppone che il fatto di essere italiano sia qualcosa di cui essere fieri: chissà, ci poteva andare peggio, potevamo nascere francesi o a San Fernando Po. Si presume anche gli abitanti di quel luogo «amino» il loro Paese; ignoro se questo atteggiamento sia previsto anche per gli abitanti di Fernando Po. Ma il Pakistan non è una nazione, la sua fot ma grafica è una delle molte possibili, e venne disegnata da un funzionario inglese che disponeva di adeguate carte geografiche e molte matite, ed era venuto in India quell'unica volta, giusto per fare un po' di Storia. Lo stesso nome «Pakistan» non è «il» nome di una nazione, ma semplicemente una sigla, formata da iniziali: un acrostico, nel quale si possono riconoscere il Punjab, il Sindhi. il Kashmir. 11 Pakistan non è una nazione per il motivo, del tutto ovvio, che esso è formato da varie «province» — che potrebbero considerarsi nazioni —, che hanno tradizioni diverse e soprattutto lingue diverse: in certi casi, del tutto diverse. Si potrebbe pensare a una nazio-, ne artificiale, una trovata a livello di Stato, un po' come la Svizzera. Niente del genere. Qui lo Stato esiste, ma le sue funzioni, o meglio la sua collocazione psicologica è totalmente imparagonabile a quella d'uno Stato europeo. Lo Stato è al servizio della comunità pakistana, ma non amministra una inesistente «nazione» paki-. stana. La parola centrale di questa struttura è ummà. Non riguarda, codesta parola, il solo Pakistan, ma tutti i Paesi mussulmani. La ummà è un fenomeno che si può considerare unico, -ed è, credo, la parola centrale dell'esistenza storica delle nazioni islamiche. La ummà è la collettività depositaria dalle origini della legge, della tradizione, fondata in primo luogo sull'increato Corano, e sugli baditb, le tradizioni che nei primi due secoli si raccolsero attorno alle sentenze e agli atti del Profeta, e di taluni dei suoi compagni. La rivelazione e il modello di comportamento costituiscono e alimentano la sunna, la' tradizione, che viene custodita dalla totalità dei fedeli, e garantita dal «consenso» — «ijma» dei dottori della legge. Ho usato ripetutamente la parala «legge»; essa non ha alcun rapporto con la legge nel senso romano, ma è piuttosto imparentata concettualmente con la Torah ebraica. A questo punto è forse chiara la radicale, centrale diversità di un Paese islamico come il Pakistan, da qualsiasi Paese occidentale. Il Pakistan non è un luogo geografico o nazionale, ma un luogo religioso. Sempre, fin dagli ommayadi e dagli abàssidi, cioè dalle prime generazioni seguite alla morte del Profeta, la religione, l'appartenenza alla comunità islamica, è stato l'elemento decisivo, tale da cancellare pressoché totalmente la rilevanza dei singoli gruppi nazionali. Per questo si è avuto, inizialmente, un Islam integralmente arabo, ma già un secolo dopo la morte di Maometto la penetrazione persiana è profonda, e poco dopo seguirà una decisiva infiltrazione turca. Nasce a questo modo una poderosa comunità islamica, che si esprimerà in arabo — che resta sempre la lingua sacra, la lingua della Rivelazione —, in persiano, in turco, e poi via via in urdù — la lingua dei mussulmani di India, ora divenuta lingua ufficiale del Pakistan —, nel malese della Malesia e dell'Indonesia. Il Pakistan nacque violentemente staccandosi dall'India alla proclamazione dell'Indipendenza, nel 1947, perché ubbidiva a una esigenza collettiva di ordine totalmente religioso. I mussulmani volevano una terra da consacrare mussulmana. Rammento d'aver letto in un romanzo di Joseph Roth — non a caso un ebreo, un uomo che veniva da lontano — una frase di icastica esattezza: «Amare le frontiere di una nazione è un puro atto di idolatria". Credo che un mussulmano coglierebbe il senso di questa dichiarazione, e non avrebbe difficoltà ad accoglierla. La «guerra santa» — jihad — qualunque cosa sia, guerra in nome dell'unico Dio, o interiore guerra del fedele, è tutto fuorché una guerra di confini; la guerra è «santa» perché non conosce idoli. Da quel che ho detto discendono alcune conseguenze: la posizione del Cristianesimo in Europa non è paragonabile a quella dell'Islam nell'Islam — non è un caso che debba usare la medesima parola; e a segnare questa differenza a fondo, occorre rammentare che il Cristianesimo nacque dallo Stato per eccellenza, e con questo dovè venire a confronto, a patti, e alla fine dominarlo, senza tuttavia mai identificarsi con le sue forme; ma l'Islam nacque tra le vagabonde tribù arabe, e fu il momento religioso che coagulò in una società compatta quella dispersa e rissosa umanità. Nell'Islam non ha senso il «date a Cesare quel che è di Cesare» giacché tutto, esistenza umana e non umana, appartiene integralmente ad Allah, e l'uomo, l'effimero, colui che non pensa mai «veramente» alla morte, non è che l'amministratore, il delegato a toccare cose non sue. In breve, se vi è qualcosa di incomprensibile alla totalità della interpretazione mussulmana, è lo Stato «laico», così come non ammette l'esistenza di leggi naturali, cioè che vi sia qualcosa che non abbisogni di Dio ad esistere, ad agire, a permanere. Per dirla in modo un po' elementare, l'Islam crede, crede assolutamente e veramente, in Dio: e non potete immaginare quanta differenza faccia. Giorgio Manganelli

Persone citate: Joseph Roth, Profeta